Se per scrivere bene bisogna aver vissuto, Philippe Djian parte avvantaggiato. Si diploma all’École supérieure de journalisme di Parigi, per raggiungere l’America del Sud e realizzare un reportage fa lo scaricatore di porto. In seguito è magazziniere per Gallimard e poi venditore. Per il “Magazine littéraire” intervista Lucette Destouches, la vedova di Celine.
La sua carriera di narratore inizia grazie a un amico che gli regala una macchina da scrivere: è con lei che nascono i primi racconti. La raccolta la completerà di notte mentre lavora in un casello autostradale a Ferté-Bernard.
Diventa famoso grazie a 37°2 al mattino da cui viene tratto Betty Blue candidato all’Oscar come miglior film straniero. Vendette arriva in Italia dopo l’altrettanto interessante Incidenze e la prima cosa che salta all’occhio è il nome del protagonista, lo stesso in entrambi romanzi, solo che questo Marc – di primo acchito – ha poco a che spartire con quello scrittore fallito che per ripiego faceva il professore in Incidenze.
“Mi piaceva da matti. Mi piaceva da matti drogarmi e ballare tutta la notte. Non che mi dispiacesse avere un figlio. Non mi aveva conquistato subito, pochi mesi dopo che era nato, appena aveva smesso di sembrare un mostro tutto smorfie e gorgoglii? Non avevo forse ringraziato Julia per quel dono inatteso – per quanto brontolassi per i soldi da spendere in babysitter se volevamo continuare a uscire al ritmo di cinque o sei volte a settimana?”
A questo Marc piacciono la bella vita e gli stravizi. Può permetterselo: è un uomo affascinante di 45 anni e uno scultore affermato. Solo che un giorno Alexandre, il figlio a cui si è in fondo dovuto abituare e che ha quindi cresciuto un po’ a caso – tra attenzioni disordinate e disattenzioni abituali – si uccide sparandosi nel bel mezzo di un party. E a soli diciotto anni. Perché? E perché un gesto tanto plateale da sembrare una vendetta? Queste sono le domande a cui Marc vuole dare risposta.
Ad aiutarlo, oltre agli amici di sempre, finisce per esserci Gloria, ex fidanzata del figlio, incontrata in circostanze bizzarre.
E dirvi altro avrebbe poco senso perché i romanzi di Djian vanno letti anche solo per il gusto di assaporare le parole che sa mettere in fila. Di certo è uno scrittore che tiene allo stile e ogni occasione è buona per farlo sapere al lettore. «Le storie non mi interessano. Non faccio sociologia, né politica. Per me conta solo lo stile. Trovare parole che una dopo l’altra stanno bene insieme. Questo, per me, è scrivere».
Sarà. Certo è che negli ultimi romanzi di Djian gli uomini sono in bilico, sono artisti o vorrebbero esserlo, hanno rapporti complicati – accidentali più che altro – con le donne, con gli altri uomini, e pure con il mondo. E in queste trame si avverte anche qualcosa che non quadra, qualcosa che sfugge o che, intenzionalmente, non viene precisato. In effetti Djian fa di tutto per passare da scrittore e poco da narratore, lo dimostra l’ostinata e schizofrenica alternanza tra prima e terza persona capace di frammentare il flusso narrativo e costringere il lettore a una sorta di collage per ricostruire la trama. Eppure i personaggi, il loro modo di muoversi e parlare, sono fatti indiscutibili. Vivono, punto e basta. E arrivano con il proprio carico emotivo, con i propri dubbi. E con la propria storia. E il gioco è fatto.
Vendette, Philippe Djian, traduzione di Daniele Petruccioli, Voland, p. 145 (14 euro)