Ero pronto a essere corrotto. Ero debole, adolescente e vulnerabile.
I miei avevano fatto di tutto per tenermi lontano dal rock, ma non dalla musica. Perché nella musica ero immerso fin da piccolo. Sono cresciuto con la testa adagiata fra cuscini armonici, tra Schubert e Mahler, Bach e Mozart, Monteverdi e Vivaldi, con spruzzate di Stravinskij e Luigi Nono per non dimenticarsi nessuno. E siccome la musica non basta ascoltarla, ma bisogna anche suonarla, eccomi iscritto alla corte di un rinomato maestro sudamericano per imparare a suonare il flauto traverso. Che odiavo, almeno quanto odiavo il rinomato maestro.
Arrivato al liceo ero un outsider, l’unico che con il walkman ci sentiva Čajkovskij. Poi, lungo la strada che facevo tutti i santi giorni per andare a scuola, ha aperto un negozio di chitarre elettriche. E in vetrina, oscena, sensuale, colorata, stava una Fender Stratocaster, azzurra carta da zucchero. Bellissima. E per non farsi mancare nulla, dietro la Strato azzurra c’era un enorme poster con la copertina di London Calling dei Clash. Quella con Paul Simonon che sfascia il basso. Fermai la bici. Fermai il tempo. Fermai i miei quattordici piccoli anni. La bellezza iconoclasta di quel poster e quella Strato azzurra stavano lì a dirmi, senza troppi mezzi termini: sfascia tutto e ricomincia da qui. Eccola, la corruzione che mi spettava di diritto.
Per essere ulteriormente diverso dagli altri, oltre a farcirmi le orecchie con Mahler e compagnia bella, i miei mi avevano iscritto alla sezione di tedesco. Tedesco? Ma come tedesco?Chi è che si iscrive a tedesco? Io. Ma perché? Be’, ovviamente per Mozart, Beethoven, eccetera. Così, ero uno dei pochi adolescenti italiani le cui orecchie non erano in grado di capire una sola sillaba di inglese (avrei almeno potuto fare francese, che ne so, almeno Serge Gainsbourg che scopava con Jane Birkin, quello avrei potuto sentirlo e capirlo, e invece no). Tedesco. E quindi i Clash erano una band con un nome figo, ma cosa volesse dire Clash mica lo sapevo.
Provare a chiederlo a casa era inutile: i miei genitori avrebbero snobbato la domanda con un sorriso. Loro non si occupavano di musica “bassa”. La musica “alta” bastava e avanzava. E di musica “alta” si parlava, di essa si disquisiva, si confrontavano esecuzioni e edizioni, come se la stragrande maggioranza della popolazione ne conoscesse naturalmente i percorsi, le opere, gli autori. La minoranza, a casa mia, era chi ascoltava musica “leggera”. Quindi, sperare di trarre qualche informazione sui Clash a casa era un lavoro assolutamente inutile. Ricordo che qualche anno più tardi Nena, una mia fidanzata, assistette a una filippica di mio padre su quando era ancora ingegnere alla Siemens ma si sentì costretto a licenziarsi in quanto non poteva più, cito, «sopportare di lavorare con gente che non conoscesse il Tannhäuser». La cosa al momento passò liscia, ma più tardi la fidanzata in questione mi disse «certo che gli ingegneri conoscono un sacco di strumenti tecnici strambi». Capite? Per mio padre l’opera di Wagner era di dominio pubblico. A casa nostra, parlare del Tannhäuser era come a casa di un arbitro parlare di fuorigioco. Meno male che poi Roy, alla fine di Blade Runner, dice «e ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhäuser»: così, chi non conosce l’opera wagneriana ma conosce mio padre può pensare che il motivo del licenziamento volontario fosse legato alla (certamente grave) non conoscenza della famosa scena.
Quindi sono partito dal dizionario italiano-inglese, come se dovessi tradurre la Stele di Rosetta.
L’erba cattiva, Ago Panini, Indiana editore, p. 250 (12,50 euro)