La notte del 21 agosto del 1986, tra le nove e dieci di sera, se vi foste trovati nella valle di Nyos, in Camerun, avreste dovuto sperare di essere roccia vulcanica, vegetazione o una casa. Solo così sareste “sopravvissuti”. Avreste avvertito un boato, di fronte a voi il lago avrebbe cambiato colore. Poi il silenzio.
Uomini, donne, bambini, 1700 persone muoiono in pochi istanti, con loro il bestiame e ogni essere vivente. Intorno non sembra accaduto alcunché, tutto è immobile e intatto.
L’Africa nel suo complesso appare sulla carta più ben piantata di quanto non sia in realtà, come se volesse gonfiare il petto, mentre tutti sanno che da est a ovest è piena solo di sabbia del Sahara. Il Camerun si trova nell’ascella, il posto più afoso, dove tutto è umido, caldo e verde. Il paese prende il nome dai gamberi – camarão – che il navigatore portoghese Fernão do Pó scoprì nel 1472 vicino al delta di un fiume nel Golfo del Biafra.
Che cosa è successo? Colpa del vulcano. Una bomba. Una bolla di CO2. Un esperimento. Una maledizione. Ciò che è certo? L’esito, cioè i morti. Ma questa è solo la conclusione della storia, anzi delle storie, perché le versioni si accavallano e sono diverse a seconda dell’interlocutore: missionari, gente delle tribù locali e soprattutto gli scienziati interrogati su uno dei disastri naturali più clamorosi del secolo.
Dalle tesi scientifiche di geologi alle teorie strampalate e complottiste il passo è breve. Frank Westerman – che ha studiato agricoltura tropicale, è un grande viaggiatore e si è dimostrato abbastanza cocciuto da insistere con la sua passione per il giornalismo di inchiesta, tanto da farne una professione – parte da qui, dalla conclusione dei fatti, per sviluppare una inchiesta atipica. Lavorando sui tasselli della vicenda e sulle diverse versioni, indagando le teorie formulate, l’autore analizza come da un evento misterioso (e quindi ambiguo) nascano infinite storie e da queste si generino i miti.
Gli uomini sono animali narranti. Ci raccontiamo l’un l’altro a catena storie inventate a cui, se pur non crediamo alla lettera, come minimo attribuiamo un significato. Come richiudendoci volontariamente dietro le sbarre della nostra stessa creazione.
Mi sono chiesto quale fosse l’origine di miti che hanno una tale forza di amalgamarsi così alla realtà. Sono cominciati in forma ridotta? E come allora?
Scopo dell’inchiesta, quindi, non è semplicemente afferrare la verità ma portare alla luce un processo di costruzione ben più articolato: analizzare i fatti e le parole utilizzate per raccontarli, e osservare come “germogliano nuovi filoni narrativi di un mito”.
Da dove cominciare? Intervistando proprio quelli che, al contrario, avrebbero il compito di liberare il mondo dai suoi miti: i ricercatori professionisti, quelli che misurano, hanno esperienza e usano la logica. E poi analizzare le registrazioni dei soccorritori ma anche le testimonianze dei veggenti, dei superstiti, dei consiglieri del fon (il capo tribù), del fon stesso. E ricomporre il puzzle.
La curiosità umana non si accontenta di ciò che è incompleto, assurdo, inconoscibile. Se non c’è alternativa, ci inventiamo quanto manca.
Leggendo troverete quindi lo stupore, il giallo e la caccia agli indizi. Ma soprattutto troverete tutto ciò che sta attorno agli indizi (specialmente nella seconda parte del testo, meno incentrata sull’indagine e sul mistero, quindi un poco più ostica per il lettore poco “allenato”). Se amate la buona documentazione, non resterete delusi. Se amate “viaggiare” leggendo, potrete conoscere meglio un Paese. Se siete soprattutto lettori di narrativa, la voce dell’autore e il montaggio – i continui cambi di prospettiva e luogo – vi coinvolgeranno ma non si tratta di un romanzo. E potreste sentirvi un po’ persi.
Il giornalismo si fa con i piedi, e si può fare anche usando l’“io”, a patto di essere così bravi da utilizzare la prima persona per avvicinare il lettore ai fatti e non per diventare parte di essi.