Correttore bozze, editor, traduttore: quanto vale il tuo lavoro?

Correttore bozze, editor, traduttore: quanto vale il tuo lavoro?

Farsi pagare significa (anche) farsi rispettare e saper dare un valore al proprio operato; ecco perché “gratis” è una parola molto pericolosa. 

Mi costa una vita cantava Lucio Battisti ma la sua motocicletta qui non c’entra. I costi e le vite, sì.

Il fatto è che se costi poco, vali di conseguenza. Perché, diciamocelo, se il tuo lavoro viene retribuito con una cifra prossima allo zero, la tua professionalità e il valore del tuo tempo hanno la stessa sgradevole vicinanza al nulla.

Parlo di alcuni mestieranti del libro. Traduttori, redattori, correttori bozze che fanno lavori invisibili. Invisibili perché sulla copertina – tranne rare eccezioni – non figura neppure il traduttore (senza il quale il libro non esisterebbe), figuriamoci i redattori che si sono occupati del testo, i revisori che hanno controllato la traduzione, i correttori che sono andati a caccia dei refusi e delle incongruenze (e di molto altro). E così come mi piace conoscere il nome di chi ha raccontato nella mia lingua la storia letta, non mi dispiacerebbe sapere a chi devo un testo pulito e corretto.

E quanto vengono pagate queste figure professionali? Per un traduttore 12 o 15 euro a cartella sono normali; 1,50 a cartella per una correzione bozze. Poco, pochissimo?

Ma prima ancora di discutere sulle retribuzioni, io discuterei sul concetto di cartella: una fregatura pazzesca. Perché tutto dipende da che cartella, ecchecavolo! Non sarà mica uguale tradurre 1800 battute di Kafka o 1800 della Kinsella. E rivedere una traduzione pessima costerà fatica e diottrie doppie rispetto a quella di un professionista che ha fatto un buon lavoro. Senza contare che la confusione regna sovrana perché per alcuni una cartella corrisponde a 1500 battute, per altri a 1800 e per altri ancora a 2000 (quando ti devono pagare sono sempre 2000, chissà come mai).

Piccola chiosa: quando conteggiate le battute dovete contare pure gli spazi tra le parole. Lo dico sia per quelli che devono farsi pagare sia per quelli che sperano di poter fare la cresta. Un amico traduttore, una volta, ha consegnato al cliente un lungo serpentone di parole. “Visto che non me li ha pagati” gli ha detto “gli spazi ce li metta lei”.

Comunque. Lavorare con tariffario fisso è poco professionale. Il lavoro va valutato caso per caso. Devi capire cosa ti aspetta, in modo da ipotizzare il tempo che investirai in quel dato progetto.

E il problema delle tariffe si pone eccome perché, ormai, nelle redazioni i dipendenti sono pochi e i lavori vengono affidati “all’esterno” a chi? Agli atipici. Che lavorano con collaborazione a progetto o con l’infame partita iva.

E poi c’è il “nemico” che non ti aspetti. Che a guardalo bene ti assomiglia parecchio. In effetti è come te, qualche anno fa. Ama il tuo lavoro, lo fa con passione e siccome non ha esperienza è disposto a ricevere compensi ridicoli.

Quello che accetta 50 centesimi a pagina per correggere un manoscritto o si propone per una traduzione a 6 euro a cartella. E si scava la fossa. E la fossa la scava pure a chi lavora da anni e si sente dire che le sue tariffe sono troppo alte.

Se accetti le briciole, non solo non ti fai rispettare, ma sostieni l’infernale macchina di San Precario. Carne da cannone sei e carne da cannone resterai. Perché se un tempo la gavetta era l’anticamera di un lavoro degnamente remunerato, a tempo indeterminato, con aumenti, ferie retribuite, malattia pagata… oggi non è più così.

Perciò tutti dobbiamo avere maggiore consapevolezza, anche nel fare la gavetta, perché la gavetta rischia di essere una condizione definitiva. E se ti offrono un compenso inadeguato, devi dire “no”.

E non voglio sentirmi ribattere che questo succede nel “mondo che vorrei” perché nella vita vera, per uno che non accetta, ce ne sono dieci disposti a farlo.

È una questione di mentalità, un modo di ragionare necessario da cui far derivare delle azioni altrettanto necessarie. Perché la vita che non costa, quella che non vale, spesso è la tua.

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8 Comments

  • Io dico no, infatti. Quando leggo proposte per scrivere articoli a mezzo centesimo a parola, no, lascio perdere. La scrittura, e comprendo anche la correzione di bozze e l’editing, non vengono valutati il giusto.

    • Bravo, bene, bis!
      Perché se uno accetta, diventa complice di un sistema malsano che tende a fagocitare le passioni e i talenti.
      Ciao, Daniele, e buona scrittura!

  • È chiaro che non bisogna accettare lavori a prezzi ridicoli, ma quelli che vogliono entrare nel mercato devono per forza fare prezzi più bassi. Poi sta al datore di lavoro capire a cosa questi prezzi bassi sono dovuti, facendo degli opportuni test. Se poi il datore di lavoro se ne frega della qualità finale è un altro discorso (perché capita pure questo).
    Non è detto poi che questi prezzi rimarranno sempre così bassi. Una volta che si acquista esperienza e le persone per cui lavori si trovano bene con te, li tiri su oppure ti proponi ad altri, con il background del lavoro già fatto, a prezzi più elevati.
    Non ci vedo niente di sbagliato in questo.
    Ma non bisogna di certo farsi pagare dei prezzi che oggettivamente non ti permetterebbero neppure di campare, se lavorassi a tempo pieno. In tal caso non ha senso.

  • Carla, quella che descrivi è, appunto, l’evoluzione naturale dalla gavetta a una collaborazione professionale. Tutti, all’inizio, abbiamo “limato” i prezzi. Sono una libera professionista e quindi so di cosa parli. Il problema adesso è che da un lato i prezzi proposti non sono stracciati, di più (sono prossimi al gratis) ma il salto, l’aumento dei prezzi non avviene o avviene con scatti infinitesimali. Questo è quello di cui parlo. A presto!

  • Parole di Chiara che sono sante, santissime… Lo scrive una traduttrice. Il problema mi sembra più ampio: da tempo il lavoro non è più un valore (morale, professionale, costituzionale, esistenziale, ecc.) ma una merce deprezzata (un kg di patate ha più potere contrattuale di un’ora di lavoro). N.B. Importante: ormai succede spesso che traduzioni pagate a tariffe da fame siano di buona qualità (= capacità svendute). E quindi si chiede giustamente il datore di lavoro: perché pagarle di più se con metà della spesa ottengo lo stesso risultato? È il meccanismo della guerra tra poveri che fa aumentare i profitti (di pochi) e diminuire i guadagni (dei molti che lavorano).

  • Purtroppo avete ragione tutti, qui sta il vero problema. Non credo che le case editrici facciano i milioni di euro, quanto meno la stragrande maggioranza, purtroppo i libri venduti in Italia sono pochi, quindi cercano di tagliare i costi il più possibile, sfruttando la necessità di lavorare di ognuno di noi, è brutto dirlo ma è così. Certo a volte il prodotto offerto è pessimo e quindi le stesse case si fanno un autogol, ma molto spesso il prodotto è buono e quindi hanno fatto un affare.. Come uscirne? Mettere dei prezzi minimi secondo me è sbagliato e inutile, sbagliato perchè si creano a lungo andare delle rendite di posizione stile ordini professionali che sono peggio del male, inutile perchè ci sarà sempre qualcuno che per varie ragioni sarà disposto a ridurre il suo prezzo. Credo che si debba armonizzare l’intero modo di operare delle case editrici: meno libri, fatti meglio e con una vita di scaffale più lunga, aumentare le edizioni più economiche per cercare di aumentare il numero di vendite e così via.

  • Ottimo articolo su un annoso problema. L’amara verità, che andrebbe sempre spiegata agli aspiranti traduttori, è che di sola traduzione letteraria non si vive, e questo vale per chi fa la gavetta come anche per i traduttori più esperti.

    • Già, Silvia, mi capita lo stesso quando dico a un esordiente che vivere di sola scrittura è da equilibristi (un po’ inappetenti e con pochi desideri). Grazie, perché mi hai fatto scoprire la “La vendetta del traduttore”! Per chi vuole sapere di cosa si tratta, basta che clicchi qui: http://ninehoursofseparation.blogspot.com/
      A presto!

      P.S. Grazie anche per la traduzione di “Venivamo tutte per mare”!

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