Inseparabili. Il fuoco amico dei ricordi

Inseparabili. Il fuoco amico dei ricordi

Basta frequentare se stessi con assiduità per capire che, se gli altri ti somigliano, be’, allora degli altri non c’è da fidarsi.
Da una vita Filippo Pontecorvo non faceva che ripeterselo. Per questo non era così sorpreso che Anna, sua moglie, da quando aveva saputo che il cartone animato del marito – prodotto con pochi spiccioli e senza grandi pretese – era stato selezionato alla Quinzaine des Réalisateurs del Festival di Cannes, per ritorsione gli avesse inflitto il più drastico sciopero sessuale che il loro strambo matrimonio avesse mai conosciuto. Peccato che tanta consapevolezza non alleviasse in lui lo sconforto: semmai lo incrementava subdolamente.
Da un mese e mezzo ormai, Anna fomentava bellicosi picchetti davanti alla prospera fabbrica della loro intimità. E sebbene per un tizio come Filippo, con un debole per il bistrattato sesso coniugale, si trattasse di un vero castigo, tale sabotaggio non lo aveva mai fatto arrabbiare come quel giorno di maggio. Se ne stava lì, nella penombra pomeridiana della stanza da letto, a riempire la sacca militare coi suoi stracci in vista della partenza per Cannes dell’indomani. Chissà perché, avvertiva un senso di nausea, neanche si stesse preparando per una missione in Afghanistan.
Fuori pioveva a dirotto. Dentro Filippo si sentiva affogare. Da qualche minuto stava cercando di consolarsi con una tecnica da lui stesso messa a punto, tanto collaudata quanto inefficace. Consisteva nel fare un benevolo bilancio di vita: un consuntivo che, almeno nelle intenzioni di chi lo stilava, avrebbe dovuto sprizzare ettolitri di irragionevole ottimismo.
Dunque, vediamo un po’: aveva quasi trentanove anni, un’età pericolosa ma niente male. Stava per partecipare a un’importante kermesse. Disponeva di un numero invidiabile di pantaloni mimetici, in ricordo della sola esperienza luminosa della sua esistenza: sottotenente nei fucilieri assaltatori alla caserma di Cesano.
Malgrado, secondo gli antiquati canoni della madre, non avesse combinato quasi niente nella vita, Filippo non si sentiva scontento di sé. Anzi, gli pareva di aver saputo imprimere una certa classe a tutta quell’inerzia.
Sposare la figlia di un milionario era stato un colpo da maestro. Anna si occupava della sua sussistenza con la stessa irrefutabile solerzia con cui, per un sacco di tempo, se n’era occupata la madre. Eppure, anche se indossare i panni del mantenuto non lo umiliava più di tanto, cionondimeno gli dispiaceva che la maggior parte dei loro conoscenti liquidasse l’unione tra lui e Anna come un matrimonio di interesse. La verità è che Filippo aveva iniziato ad amare Anna Cavalieri molto prima di incontrarla. E questa era la cosa più romantica che fosse capitata a entrambi.
Le donne: altro capitolo da cui trarre consolazione. Filippo non era un tipino come suo fratello Samuel, tutto frigido e schifiltoso. Di quelli che, per rendere a letto, hanno bisogno d’un bungalow a cinque stelle vista oceano. Intendiamoci: non che avessero mai discusso certi argomenti, ma qualcosa gli diceva che il fratellino avesse divorato troppi film con Fred Astaire e Gene Kelly per essere un grande scopatore. Lui, invece, almeno in quel ramo, se la cavava egregiamente: anche nelle circostanze più squallide e con le partner meno appetitose.
Filippo evitò di conteggiare – nella lista delle cose-di-cui-essere-fiero – la laurea in Medicina, conseguita con fatica indicibile grazie allo sprone di una specie di vocazione dinastica: il padre era stato un oncologo pediatrico di fama internazionale, da anni la madre era la geriatra più in voga nei circoli bocciofili orbitanti intorno all’Oliata.
Si guardò bene inoltre dall’includere il periodo trascorso in Bangladesh nelle file di Medici Senza Frontiere, un’avventura penosa in tutti i sensi, anche se gli aveva fornito la maggior parte del materiale per il suo cartone animato.
In compenso rivalutò in extremis la stupefacente capacità di imitare, con mano felice, i disegni dei grandi venerati maestri dei comics. Dopotutto, il primo vero riconoscimento della sua vita si doveva proprio a quel velleitario talento. Se stava preparando la sacca per Cannes era perché a Gilles Jacob, il leggendario patron del festival più leggendario del pianeta, non era dispiaciuto il suo cartone animato.
Uscì dalla camera. Percorse il corridoio che divideva – stando al gergo di Raffaele, l’architetto di grido che aveva curato la ristrutturazione della casa – la zona notte dalla zona giorno. Il passo imperioso con cui marciava verso la cucina la diceva lunga sulla bellicosità delle sue intenzioni alimentari. Uno spuntino dei suoi, qualcosa che placasse l’inquietudine e rimettesse in moto i neuroni.
La cucina era il solo spazio domestico su cui Filippo aveva messo becco. Una cosa che condivideva con la moglie era il disinteresse per i beni materiali: non c’era niente che meno rappresentasse quella coppia di eccentrici sbandati della casa in cui vivevano. Tanto è vero che il suo acquisto, nonché la dispendiosa ristrutturazione, erano stati uno degli imprevisti e non così graditi regali del dottor Cavalieri, il padre di Anna. Mentre Filippo aveva accolto il dono con il solito fatalismo, Anna era stata lì lì per rifiutarlo: il quartiere (ogni anno un po’ più esclusivo e un po’ meno intellettuale) era infestato da attrici per cui provava un odio omicida, e che aveva il terrore di incontrare al supermarket.
Il villino sorgeva in una delle vie più appartate di Monteverde. Una palazzina liberty di un color zabaione vagamente lezioso, ma del tutto appropriato al boschetto di magnolie in cui era immersa. Il caro Raffaele, benché frustrato dal disinteresse dei committenti per l’interior design, ce l’aveva messa tutta per conferire ai trecento metri quadrati la squisitezza giapponese che forse sarebbe stata più adeguata a single professionalmente soddisfatti e sessualmente carismatici. Niente tende, pareti chiare, pavimenti coperti di tatami, arredo rado fin quasi all’ascetismo monastico, uno schermo Sony di settanta pollici che svaniva in una parete attrezzata piena dei dvd della moglie e dei fumetti del marito.
Nessuna di quelle scelte stilistiche era stata dettata né avallata da Filippo. Perché, per l’appunto, l’unica stanza che gli premeva era la cucina. Dalle sue proposte, si capiva che Raffaele era molto più interessato alla tinta acida del frigorifero Smeg che alla sua capienza. E questo Filippo non poteva tollerarlo. Per lui ciò che rendeva una cucina degna di questo nome era un grande – ma che dico grande? –, un enorme tavolo da lavoro piazzato in mezzo alla stanza, che invogliasse a cucinare per un reggimento.
E l’aveva ottenuto.

Inseparabili. Il fuoco amico dei ricordi, Alessandro Piperno, Mondadori, p. 351 (20 euro)

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7 Comments

  • Mi piace molto la descrizione della casa, il frigorifero smeg che non mi sono potuta pemettere facendomi convincere dal commesso “questa ditta è come la smeg ma slovena” pur di avere il frigorifero in tinta, e mi si è spaccato subito. Per la sostituzione è dovuto intervenire un avvocato! Non che i miei fattacci interessino agli altri qui, ma per dire che in effetti in una storia di coppia la casa parla molto di abitudini, nefandezze e, si spera, anche d’amore. Buon week end.

    • E a me piace questo commento. Inoltre provo una certa vicinanza emotiva con il tuo racconto (ieri mi è scoppiato, letteralmente, il frigo). E i tuoi fattacci, essendo raccontati in modo interessante, lo diventano.

  • Ho letto “Persecuzione” che è il prologo di questo romanzo. Mi permetto (tanto non c’è nessuno a vietarlo) di incollare qui quello che scrissi all’epoca. Poi ritorno.

    (…)
    Se ritenete che il processo di identificazione con il protagonista, Leo Pontecorvo, risulti imbarazzante, perché qualcuno potrebbe riconoscervi, potete sempre denunciare Piperno al Garante della Privacy oppure contare sul fatto che le vostre donne – mogli, amanti, figlie o fidanzate – non potendo immedesimarsi nel protagonista, troveranno il libro noioso (lo è) e si avvarranno della facoltà di non leggerlo o di non finirlo.
    Sette stelle e non cinque per la scrittura, che è matematicamente perfetta. Due stelle e non cinque per la storia, che non c’è. Piperno rinuncia a inventarsi una trama, non parliamo poi di una trama avvincente, e fa ben attenzione a non creare tensione. A partire da metà libro, l’impulso di girare pagina non asseconda il desiderio di sapere cosa succede, ma di avvicinare la fine.
    Nella parte in discesa del romanzo, il rapporto con il protagonista cambia. Piano piano ci si dissocia da lui, tanto che viene spontaneo domandarsi come si sia potuto seguirlo e comprenderlo così bene all’inizio. Nelle ultime pagine, lo si abbandona, riuscendo a vederlo finalmente da fuori e, nel fare questo, si ha il sospetto che sia esattamente quello che voleva l’autore. C’è un seguito annunciato esplicitamente nelle ultime righe, l’appuntamento al prossimo libro che sarà la continuazione di questo. Quello che non si capisce è se vuol essere una promessa o una minaccia.

    Ecco, leggendo l’estratto pubblicato da Chiara, ancora non mi è chiaro: ferma restando la scrittura perfetta e geometrica di Piperno, questo secondo episodio è una buona o una cattiva notizia?

    • Ciao Aldo, ottima recensione.
      In realtà sono parziale, perché la vedo come te. Piperno è una persona molto interessante quando parla, scrive articoli, commenti… ma lo trovo mortalmente noioso quando racconta. Non riesco proprio a scivolare nel suo mondo. Sì, manca una trama, ma non è questo. Più che altro è come se non mi riguardasse mai. La sua scrittura però, come dici tu matematicamente perfetta, lo rende sempre fruibile, senza troppa partecipazione, ma godibile lessicalmente e stilisticamente fino alla fine.

  • C’è una cosa che mi ha colpito: 20 euro?
    Considerando le 350 pagine e l’assenza di costi di traduzione, annessi e connessi, oserei dire: ‘sticà!

  • Ha colpito anche me. In effetti non son certo pochi…

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