Il bello della vita

Il bello della vita


Aurélie Renard se ne stava sul lato occidentale della piazzetta. Strofinò un fiammifero contro il muro, accese la quarta sigaretta della mattina e ripose nella scatoletta il bastoncino bruciato. L’ora di punta stava quasi per finire e un’ondata di persone si riversò fuori dall’uscita della metropolitana, passandole davanti, per raggiungere i rispettivi posti di lavoro nelle vie intorno. Sull’altro lato della piazza, visibile a intermittenza attraverso le sagome dei passanti, sedeva un vecchio dalla barba folta. Intabarrato in un cappotto marrone consunto e pesante, suonava una ghironda; ad Aurélie piaceva il suono ronzante di quello strumento a corda, e lo ricordava bene. Il vecchio indossava un colbacco, per questo Aurélie aveva sempre pensato a lui come al “Russo”. In realtà, non aveva la minima idea delle sue origini, o di come si chiamasse il suo strumento: per lei era soltanto quello strumento russo, e non voleva rischiare di rovinarne la magia scoprendo troppe cose al riguardo.
La sera prima si era tolta la benda dagli occhi, si era avvicinata alla cartina di Parigi che aveva attaccato a una parete di casa, ed era stata contenta di scoprire che la freccetta era finita in un punto che le era in qualche modo familiare. Due estati prima, quando aveva diciannove anni ed era appena arrivata in città, aveva trovato lavoro in un negozio di casalinghi a pochi isolati da lì, ed era finita a vendere pentole e padelle costose a gente che non si rendeva assolutamente conto di vivere nello sfarzo. All’epoca quella era la fermata del metrò più comoda per andare al lavoro, e per un certo periodo aveva attraversato la piazza praticamente ogni giorno. Le piaceva l’idea di aver fatto parte, una volta, di quello stesso flusso di persone. Si immaginò l’aria che doveva avere a quell’epoca: lo sguardo ancora un po’ assonnato, il passo svelto, quasi una corsa, per cercare di arrivare al negozio in orario dopo un inizio di giornata un po’ confuso. Ora, invece, se ne stava ferma lì, la sigaretta in mano, in attesa del momento giusto per cominciare.
Il Russo era stato lì tutte le mattine, sempre con il suo cappotto e il colbacco, perfino in piena estate, quando anche l’indumento più leggero era di troppo; quelle volte le era bastato guardarlo per sentirsi mancare il fiato dal caldo. Ora, invece, l’aria era davvero fredda, ed era la prima giornata di quell’autunno in cui l’abbigliamento del vecchio non sembrasse fuori luogo. Aurélie riusciva addirittura a vedere la nuvoletta del proprio respiro, e alcune delle persone che le sfilavano accanto indossavano giacconi pesanti, perfino cappotti invernali e guanti. Altre, quelle che erano state colte di sorpresa dal freddo, cercavano di non apparire troppo a disagio mentre affrettavano il passo più del solito.
Nessuno sembrava prestare attenzione all’uomo con la ghironda: la maggior parte di loro, proprio com’era successo a lei, gli era già passata davanti parecchie volte la settimana, e aveva smesso di farci caso da un po’. Non aveva mai visto qualcuno fermarsi ad ascoltarlo, o lanciargli una moneta, tanto che si era perfino chiesta se fosse davvero un suonatore ambulante: forse la sua padrona di casa era debole di nervi e non sopportava i rumori, così lo spediva a esercitarsi fuori. Sebbene la custodia dello strumento fosse aperta, era appoggiata accanto a lui sulla panchina, non per terra come vorrebbe la tradizione. Queste ambiguità l’avevano sempre trattenuta dal dargli un euro o due, e perfino adesso si sentiva un po’ in colpa per questo. Certo che era uno strano modo di cercare di tirar su un po’ di soldi, mettersi a suonare ogni santo giorno per la stessa orda di pendolari imperscrutabili.
Per un istante, Aurélie prese in esame il proprio abbigliamento. Aveva riflettuto parecchio su come vestirsi. La prima impressione era essenziale: voleva avere l’aria dell’artista in modo da risultare credibile ma non arrogante. Ed era convinta di aver fatto un buon lavoro. Quasi tutti i passanti sfoggiavano la tenuta standard da ufficio, proprio come aveva fatto lei ogni volta che aveva attraversato la piazza. Quel giorno invece si distingueva per gli anfibi neri macchiati dei colori del recente e fallimentare esperimento di pittura a olio, i jeans neri e una giacca trapuntata rossa nuovissima, un’aggiunta dell’ultimo minuto dovuta alla temperatura. I capelli, dopo anni di cambiamenti, erano finalmente tornati al loro colore naturale, quello che all’inizio dell’adolescenza aveva bollato come color topo, prima di darci dentro con acqua ossigenata e tinte varie; di recente, però, aveva iniziato a considerarlo un gradevole biondo cenere. Non aveva ancora deciso se farli crescere davvero, ma per il momento erano lunghi quel tanto che bastava per raccoglierli, ed era ciò che aveva fatto. Sapeva di avere l’aspetto giusto. La prima impressione sarebbe stata buona. Fumò la sigaretta fino in fondo, poi la spense sul muro e infilò il mozzicone nella scatola dei fiammiferi. Era arrivato il momento. La fermata del metrò stava riversando una nuova ondata di passanti, ingrossata dai passeggeri di un bus appena arrivato. Aurélie accese la telecamera e se la sistemò sulla spalla. Era piuttosto pesante, un modello antiquato con cassetta VHS, e lei sperava che la sua antichità contribuisse all’aspetto multimediale della faccenda. Tirò fuori di tasca il sasso.
Lo aveva scelto con estrema attenzione. Era un sassetto grande più o meno quanto un acino d’uva, e di un grigio così scuro da sembrare nero. Aveva deciso che un sasso scuro sarebbe stato l’ideale, perché non si sarebbe confuso con lo sfondo dei palazzi di pietra chiara. L’aveva preso dalla collezione di sassi interessanti che aveva accumulato da bambina, quasi tutti raccolti in spiaggia durante qualche gita al mare con la sua famiglia. Non riusciva a ricordare da quale spiaggia provenisse quello, ma doveva essere stata la combinazione di levigatezza e colore a farlo spiccare in mezzo agli altri e a farle venire voglia di raccoglierlo e portarselo a casa.

Il bello della vita
, Dan Rhodes, traduzione di Daria Restani, Newton Compton, p. 383 (16,90)

Articoli suggeriti

2 Comments

  • la copertina è meravigliosa, le copertine sono importi parafrasando Moretti (anche i titoli però…). La prima riga e mezza mi ha ricordato La piccola fiammiferia, Buona settimana entrante. Baci

  • Ahahahah una fiammiferaia tabagista, però. Un bacio!
    Chiara

Leave a Reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *