Valerio Piperata: la presunzione

Valerio Piperata: la presunzione

La storia di un esordio. Ce la racconta Valerio Piperata. Ha studiato Lingua e letteratura russa alla Sapienza di Roma e ha esordito con E/O.

A tredici anni scrivevo poesie melense sulla solitudine e la vecchiaia e racconti su adolescenti suicidi. Pensavo fosse roba buona.
Ho cominciato a scrivere il mio primo romanzo solo più avanti, a diciotto anni. Era una storia triste brutta e scritta male, con la presunzione e l’arroganza (che adesso quasi rimpiango) di quegli anni. La mando ai più grossi editori italiani. Non ottengo alcuna risposta, com’è ovvio, ma per me a quel tempo ovvio non lo era per niente.
Viro allora su editori più piccoli. Nessuno risponde. Passano sei mesi.

Alla fine a farsi vivo è un piccolo editore abruzzese (non a pagamento, ci tengo), che mi manda la bozza di contratto. Lo avevo contattato perché ci aveva esordito uno scrittore quasi mio coetaneo che mi piaceva molto e di cui avevo seguito tutta la vita editoriale.
Perciò, sembra tutto normale: ho scritto un romanzo, ho un editore interessato che mi propone un contratto, e quindi?

C’era un problema: nel frattempo, in quei sei mesi, io avevo concluso che il mio romanzo faceva così schifo da non meritare una risposta da parte di nessuno degli editori che avevo importunato. Allora ne ho scritto un altro, e per qualche motivo l’ho ritenuto migliore, più fresco, più consapevole e maturo. Stavolta, lo sapevo, era quello giusto. Perciò, con quella consapevolezza presunta, la mail e il contratto dell’editore abruzzese mi avevano messo parecchio in crisi. Che faccio? Pubblico adesso questa storia, che ormai non riesco più neanche a leggere per quanto mi fa schifo, o ringrazio con garbo ed eleganza, rimango in buoni rapporti e gli propongo il mio secondo romanzo?
Nessuno delle due. Semplicemente l’ho messo in attesa e non ho risposto più. Di questo mi vergogno ancora e mi scuso.

Comunque, col mio secondo romanzo importuno tutti gli editori che avevo importunato prima e quelli del resto della Nazione che mi restava da importunare.
Mi risponde un editore enorme, il più grande che avessi potuto immaginare, dicendomi che l’avrebbe letto volentieri. Per me quella mail, che in realtà non era nient’altro che una risposta di rara cortesia, voleva dire solo una cosa: è fatta. Pubblicherò con uno dei più grandi editori italiani mai esistiti.
E invece no.
La seconda mail da quell’editore non arrivò mai.

Comincia a farmi schifo anche quel secondo romanzo. Comincia a diventarmi maleodorante.
A volerlo alla fine è un editore di Latina. Mi manda un contratto. Stavolta lo firmo subito. È ancora più piccolo forse di quello abruzzese, ma stavolta non me ne importa niente: avrei pubblicato con lui, maledizione.
Ci diamo appuntamento a Latina, Piazza del Popolo, c’è la fiera del libro. Vado. Arrivo al suo stand, sono emozionatissimo. Trovo una signora sui cinquanta che mi sorride, ma l’editore non c’è. Ha avuto un lutto familiare. Appuntamento rimandato. Tutto quello che mi resta è la consapevolezza che Latina sia uno dei posti più brutti che abbia mai visto in vita mia.
Quindi, incredibile ma vero: avevo un altro contratto, e non pubblicavo neanche stavolta.

Vado avanti e faccio quello che fanno tutti a quell’età, ma il mio pensiero principale continua comunque a non essere l’università, perché c’è la musica. Le vicende vissute con la mia band mi ispirano una storia che non mi pare né brutta né bella, mi va solo di raccontarla perché è vera.
Perciò inizio a scrivere il terzo romanzo. Viro sulla commedia, un genere che sentivo più mio, chissà perché, in cui avevo la sensazione di muovermi più agilmente.
Inizio a fine inverno, finisco prima dell’estate. Lavoro tanto, lavoro meglio, mi impegno di più e con meno presunzione delle altre volte. Invio il testo a editori grossi e medi. I piccoli li avevo lasciati per una seconda tranche, in previsione del fatto che nessuno mi avrebbe risposto.
Passano un po’ di mesi, passa l’estate, io nel frattempo faccio lo stagista in un ufficio pubblico.
Un pomeriggio, sul tardi, mi arriva una mail. Il mittente è Claudio Ceciarelli, editor della narrativa italiana di E/O. Mi scrive delle cose che non dimenticherò mai. Mi dice che vorrebbe far leggere il romanzo agli editori e alla redazione. E che quindi a lui è piaciuto molto, ma bisogna aspettare il parere della Casa Editrice.

Sono spaventato a morte da questa cosa. Anche perché nel frattempo c’è l’interesse parallelo di un altro editore (che per me rientrava fra gli inarrivabili). Alla fine E/O legge il mio testo in tempi da record (editorialmente parlando) e io stacco dall’ufficio e vado da loro, nel quartiere Prati. Chiacchiero con Claudio, mi basta poco, e da lì non ho veramente più dubbi.

Quello che mi disse quella volta lo conservo dentro, s’è inserito autonomamente fra i miei ricordi più preziosi, e non se ne andrà mai.
Tutto quello che viene dopo non lo vivo con serenità, neanche dopo la firma del contratto riesco a tranquillizzarmi, anzi, sono consumato dall’ansia, ancora adesso, proprio mentre sto scrivendo questo pezzo: ho paura che, prima o poi, qualcuno, in una casa editrice prestigiosa come E/O, rilegga il mio romanzo e dica: – Ma che  stiamo facendo? Ma perché pubblichiamo questo qui? Non sa scrivere!

 

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7 Comments

  • I dubbi sono sempre un tormento, ma vanno conservati e alimentati. Io non credo ci siano consapevolezze assolute, io non avrò mai consapevolezze assolute e spero di continuare a dubitare per il resto della vita perché è solo cercando di dissipare i dubbi che riesco a progredire e a migliorare. Tutto questo vuol dire agonizzare in un lago di incertezze ma forse è peggio restare ancorati in certezze sbagliate.

    • Concordo, Monica, ma capisco il brivido, la vertigine di Valerio. Quando scrivi sei piuttosto solo, tocca fare i conti con i tuoi dubbi. E tra ascoltarli e non ascoltarli sta, spesso, la riuscita di un testo. Ho visto autori annientare cose buone e altri difendere schifezze… servono dubbi e serve pure che siano degli alleati!

      • Sì, io credo sia molto difficile essere obiettivi. È verissimo quello che dice Valerio. Appena termini un’opera viene spontaneo pensare che sia la cosa migliore al mondo. C’è l’entusiasmo, l’energia prodotta scrivendo, una valanga di emozioni portate dal flusso del vulcano di idee e pensieri esplosi come in un’eruzione. È un momento bellissimo agita tutto l’essere e arrivi alla fine del libro con una carica incontenibile, una vera gioia. Impossibile credere che non possa piacere. Poi vai avanti, cominci a incassare qualche delusione, ti concentri in altri progetti e il romanzo che sembrava il capolavoro del secolo prende le giuste dimensioni perde lo splendore incandescente e cominci a pensare che dopo tutto così bello non era. Se poi nel frattempo l’hai pubblicato e qualcuno comincia a leggerlo le critiche fanno molta paura. È un vero terrore.
        Devo dire però che scrivere rimane una cosa meravigliosa.

  • Che bello torna la rubrica “in principio fu”. Ciao Valerio, è stato un piacere conoscerti.

    • Ciao Sandra!
      Ah, ci tengo un mucchio a questa rubrica. E oggi son proprio contenta di ospitare Valerio!
      Un bacio,

      Chiara

  • Valerio, sei tutti noi che scriviamo, ci deliziamo di quello che scriviamo e -soprattutto- di noi stessi mentre il latte fuoriesce dal bricco e brucia il fornello…ma che bello è scrivere!!!!!

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