Still Alice

Still Alice

Scritto e diretto da Richard Glatzer e Wash Westmoreland, con protagonisti Julianne Moore, Alec Baldwin e Kristen Stewart.

Mio padre è morto qualche settimana fa. E quando si parlava di morte – sapete quei discorsi macabri che si fanno in occasioni liete? ché la morte va toccata ma con garbo e solo quando la senti lontana – diceva che nessun modo sarebbe Still Alice sceneandato bene, se uno vuole vivere ci sta, ma se avesse dovuto scegliere avrebbe chiesto di non finire come suo padre. E invece se ne è andato proprio così. Non ho ancora capito se alle volte la vita ti prende in giro o se ti dà l’occasione, fino alla fine, di misurarti con le tue paure. Magari serve, non qui intendo.

Ecco, se potessi scegliere, non vorrei invecchiare come la dottoressa Alice Howland (Julianne Moore) che si ammala di una rara forma di Alzheimer genetico e precoce. Ha solo cinquant’anni quando compaiono i primi sintomi. Lei è una donna realizzata, una super linguista autrice di diversi testi che insegna alla Columbia University, una con mille progetti e interessi. E siccome ha sempre voluto tutto e subito, mentre faceva carriera ha costruito pure una bella famiglia. C’è suo marito, John Howland (Alec Baldwin), un chimico, e ci sono tre figli: Anna e Tom laureati e sistemati, mentre la più piccola, Lydia (Kristen Stewart) coltiva il sogno di diventare una attrice.

Lentamente, però, tutto smette di essere a fuoco, smette di essere sicuro. Alice comincia a fare i conti con “il perdere”. Still Alice Julianne Moore 2Perdere parole, il tempo, l’orientamento… perdere la sicurezza, la contezza del discorso che stava facendo, della lezione del giorno e pure della dislocazione del bagno in casa sua. E sembra un contrappasso davvero insopportabile per una persona che ha trascorso la vita a formarsi, a lavorare con le parole, leggerle, studiarle, scriverle, comunicarle. Una che si riconosce in ciò che sa fare e in ciò che ha imparato. Ecco Alice sta perdendo tutto questo, perde la memoria di sé e così smette di essere ciò che è ma non lo fa passivamente: “Se pure sto soffrendo, io mi sto battendo, sto lottando per restare parte della realtà, per restare in contatto con quella che ero una volta”.

La pellicola è l’adattamento cinematografico del romanzo Perdersi (Still Alice) scritto nel 2007 dalla neuroscienziata Lisa Perdersi, Lisa GenovaGenova (in Italia è pubblicato da Piemme ed è stato tradotto da Laura Prandino) e forse leggere il libro, avere sotto gli occhi le parole, rende ancora più spaventoso non saperle riconoscere, associare e comprendere. Come ci si sente davvero, chiede a un certo punto Lydia alla madre: “Come se non riuscissi a ritrovare me stessa. Io mi sono sempre definita in base alla mia intelligenza, alla proprietà di linguaggio, alla capacità di argomentare e adesso, certe volte, ho la sensazione di vedere le parole che galleggiano davanti a me e io non riesco a raggiungerle, così mi perdo, non so chi sono e non so cosa perderò ancora”.

Sì, è un film doloroso; sì, si piange. E sì, Julianne Moore è da Oscar (il Golden Globe se l’è già portato a casa) e pure Baldwin – che finisci con l’odiare presto ché lui è dentro la vita e va avanti – è bravo; sono bravi i figli presi dalle proprie faccende e proiettati verso il futuro, tranne Lydia che resta, che vive il momento di dolore e cerca di capire. La scena più bella? Alice che parla con Alice e non dico altro… No, non è un film furbetto, forse perché l’ha girato un uomo, Richard still-aliceGlatzer, affetto da Sclerosi laterale amiotrofica che per comunicare con la troupe e il cast poteva solo affidarsi a un iPad. E chi è malato ha a cuore i malati, la loro dignità e il senso della malattia che li sta colpendo.

Julianne Moore con una sapiente sottrazione – toglie il patetico, gli eccessi – restituisce allo spettatore una donna vera, coraggiosa. Determinata. Cosa significa diventare esperte dell’“arte di perdere” a me è stato chiarissimo, come se la conoscessi Alice, come se facesse parte dei miei di ricordi e io fossi uno dei suoi, destinato a scomparire.

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13 Comments

  • Non ho visto il film e per adesso, nel mio attraversare la voragine su di una fune, non sarei in grado di vederlo. Tra tutte le malattie per cui valga la pena di lottare fino alla fine, quella è l’unica a cui cederei. Mi toglierei di mezzo con consapevolezza. Perché se ogni malattia in qualche modo offende la dignità della persona, quella la umilia. Ne ho viste da vicino e… si sa.
    Mi spiace molto per il babbo.

  • Non si può scegliere, no. Ma qualsiasi sia la malattia se comporta perdita di autonomia importante è uno strazio e basta. Abbraccione.

  • Non ho sinceramente parole per descrivere quanto mi sia piaciuta questa recensione; e sai che certe cose non le dico tanto per dire. Complimenti davvero, Chiara.

    • Eh, be’, wow, mmmh, ohhh (fine dei versi 🙂 ) Direi che, che mi è piaciuto, si capisce!

  • Si piange,tanto.Dalla poesia della Bishop in poi.L’arte di perdere difficile,quella di perdersi impossibile da somatizzare. Bellissimo pezzo, Chiara

  • Grazie a te! (se ti consola,dopo il suo discorso ho pianto,punto.E il marito.ahhrghh)

  • Eh,io sono un cuore di panna,purtroppo.Pensa te.

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