Bookcity 2017: grandi numeri ma i libri venduti?

Bookcity 2017: grandi numeri ma i libri venduti?

Bookcity 2017 è terminata ed è tempo di numeri, come sempre da capogiro. Eppure, gli addetti ai lavori sono critici: i libri non si vendono e pare uno sforzo a vuoto.  

Cari organizzatori di Bookcity 2017, eccoci qui, siamo già sommersi dai dati dell’ultima galattica edizione. Un trilione di eventi, un fantastiliardo di spettatori e poi fiumi di articoli, tweet, post, video… mancherà soltanto un dato, quello più importante: quanti libri sono stati venduti.

Ed è bene ometterlo, direbbe il sapiente uomo di marketing, visto che rischierebbe di essere un numero negativo. Perché più di 175.000 lettori – come si legge nel comunicato stampa – hanno partecipato alle “numerose iniziative di queste edizione”, rimbalzando come palline da flipper tra i 1.100 eventi proposti e non hanno mai sentito il bisogno di comprare libri. O quasi.

Chiedetelo agli autori, agli editori, agli agenti letterari, ai librai, alle biblioteche, agli uffici stampa, alle associazioni, agli speaker, agli organizzatori, ai 450 volontari… ho visto incontri con 80/100 persone e 4 copie vendute. Ho visto anche incontri senza i libri, se è per questo. “Tanto non si vendono”, hanno detto gli uffici stampa.

E questo succede dal 2012, cioè dalla prima edizione. Da allora non abbiamo infatti mai smesso di leggere comunicati roboanti che riportavano numeri da capogiro – pubblico in delirio, frotte di spettatori e pioggia di iniziative ma di libri venduti, no, non si parla mai – e non abbiamo smesso di leggere i ringraziamenti a tutti quelli che hanno dedicato il loro tempo alla manifestazione.

Sì, perché organizzare un evento richiede energie e tempo. E il tempo è denaro, si sa, ma ci vuole denaro anche per venire a Milano – se non si è della città – risiedervi, nutrirsi, muoversi. Ma non importa, tanto è cultura, e con la cultura non si mangia, non si dà lavoro, non si premia quello fatto bene e non si portano a casa risultati. Mai. Bastano i numeri roboanti e tanti saluti fino alla prossima edizione.

Amo i libri e amo la mia città. Non è un modo di dire, è un modo di essere che ha conseguenze sul fare. Per questo, con gioia, ho sempre partecipato a Bookcity. E in questi anni ho organizzato diversi incontri – mai da sola, sempre con persone speciali e intelligenti, prima tra tutte la scrittrice Elisabetta Bucciarelli –; abbiamo parlato di libri aumentati, di livestreaming e degli strumenti per comunicare i libri in rete e fuori; dei libri più poveri del mondo, di poesia patafisica, di stereotipi di genere, di calcio femminile, di gruppi di lettura che hanno saputo portare libri in classifica, di audiodrammi… ma non lo faremo più.

Bookcity 2017: come si può parlare ai lettori e ai non lettori senza una direzione?

L’amore per la città e per i libri non è certo cambiato. Ma ci vuole una direzione, ci vogliono progetti, il lavoro va pagato, deve produrre utili e generare soddisfazione umana, culturale ed economica. Se no si rischia di sembrare scarafaggi sulla schiena che si muovono – a vuoto – per illudersi di essere vivi.

Abbiamo davvero bisogno di 1.100 eventi in tre giorni? Di oltre 366 incontri al giorno? Alcuni di questi insulsi, privi di contenuto, egoriferiti e a tratti irritanti. A chi parliamo? Ai lettori? No, perché non so quelli che conoscete voi, ma quelli che conosco io evitano le grandi abbuffate caotiche e, spesso, prive di qualità.

I lettori vogliono che ci siano dietro delle idee alle manifestazioni. Vogliono una regia, qualcuno che selezioni, che proponga percorsi di scoperta. Vogliono portare a casa qualcosa, anche un libro, certo. E quelli che non si arrendono e, e anche quest’anno hanno sfidato la folla di Bookcity, riportano suggestioni scoraggianti. Un programma deprimente, inconsultabile, pieno di nomi ignoti e di proposte ai limiti del comico involontario (e dite al web master che gli eventi del 2016 erano indicizzati meglio di quelli di quest’anno, causando confusione agli utenti).

E i non lettori? Come possono orientarsi in tutto questo? Cosa gli comunichiamo? Che la macchina culturale a Milano propone un guazzabuglio di idee – alcune mortalmente noiose – e i libri non si capisce neppure se siano in vendita, nei cantucci in cui sono rifilati? Ma si comprano o li regalate?, hanno chiesto l’altro giorno a un banchetto.

No, vi prego!, non li regalate, ci ha già pensato #Ioleggoperché con i risultati che sappiamo. Provate però ad ammettere che questi numeri di Bookcity 2017 non servono a niente. Che tutta questa fatica non serve a niente. Forse servirebbero 60/90 eventi selezionati alla perfezione. Idee innovative, oratori capaci e libri al centro. Libri protagonisti. Serve far pagare i biglietti d’ingresso (Mantova docet) – sì, si seleziona anche l’audience –, servono eventi esclusivi perché devono essere state escluse le proposte insignificanti.

Serve ribadire che, se entri in libreria e assisti a uno spettacolo, non puoi uscire a mani vuote. È maleducato, tanto quanto non salutare o mangiare con la bocca piena. Serve insegnare che i libri su i banchi sono in vendita e non prendono il sole o la polvere. Serve che eventi e libri siano di valore, però.

E poi sono necessari sponsor che sostengano le fatiche degli organizzatori e di chi lavora alla manifestazione e le dedica il proprio tempo, di chi rende possibili gli incontri. Perché se fai le cose gratis, hai l’alibi per farle male.

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3 Comments

  • Urca.
    Dunque, toccata eh. Sui nomi sconosciuti, io c’ero anzi no, non mi hanno messa nel programma per un disguido, ma i miei compagni di squadra nominati non posso dire che siano famosi. Luogo spettacolare: la biblioteca d’arte al Castello, ci è stato detto che lì non potevamo vendere i libri, di farlo ehm sottobanco, ne avevamo poche copie, la sala era di 50 posti, tutti occupati, venduto zero. Speriamo di aver seminato che poi col nostro sito si venda. Per il resto, che dire? Non amo il casino per cui a Bookcity vado pochino, pagare pagherei. Per me è stata un’esperienza emotivamente molto forte perché ho messo sul piatto cose molto intime, tuttavial’impressione che nel complesso sia una gran baraonda male orchestrata basata sulla buona volontà c’è.

    • Partiamo dai nomi sconosciuti. Non è snobismo. Trovo detestabile che si finga di dare a tutti lo stesso spazio, quando si dà sì uno spazio ma si mollano poi gli autori al loro destino. Come fanno degli sconosciuti ad attrarre pubblico? Anche con una proposta di evento eccezionale? In un programma con 1100 eventi…
      Ma quando leggo non abbiamo venduto niente, che non potevamo vendere copie, che cosa vuoi che ti dica? Un evento per promuovere i libri che non permette di vendere i libri.
      Comico involontario.
      Ma un autore ride meno. Un autore non ride affatto (e pure i librai che vorrebbero vendere, gli editori eccetera).

  • Quando l’EMA è stata assegnata a Amsterdam m’è ovviamente dispiaciuto per l’Italia e Milano. Al contempo non nascondo un qualche sollievo per lo scampato rischio dell’ennesima figuraccia internazionale in caso di “vittoria”. Cosa non saremmo riusciti a combinare, da pasticcioni (eufemismo) qual siamo? L’incapacità italiana d’organizzare e amministrare alcunché è inequivocabile, e la descrizione di Bookcity che ne fa Chiara ne è l’ennesima riprova. Gl’individui capaci, se ci sono, restan troppo pochi rispetto agli inetti. Che non si pos-son nemmeno biasimare più di tanto: semplicemente non sono in grado. Magari impegno ne mettono, ma non ce la fanno. Punto. Complessivamente, a far meglio di così, “noi” non ci riusciamo. Cresceremo? Auguriamocelo e continuiamo a metterci, singolarmente, il massimo impegno. Ma per ora il livello generale è questo. Il caos Salone prima, da cui il discutibile Tempo di Libri, e Bookcity ora (e il Mose in ritardo d’oltre dieci anni che già si teme non funzionerà mai, per dirne, d’extra topic, una soltanto) questo è il “nostro” stato dell’arte. Migliorerà? Forse tra qualche generazione. A breve ne dubito.

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