All’ingresso della sala ricevimenti il frastuono del corteo nuziale annunciava la caduta di una nuova vittima. Il suo nome figurava, insieme a quello della sposa, su una targhetta dorata davanti alla porta: CONGRATULAZIONI, KHÀLED E NANCY.
Il corteo avanzava lento, consentendo alle annoiatissime danzatrici dal ventre abbondante, con i candelieri sulla testa, di eseguire svogliati movimenti che a stento mantenevano viva la danza.
In testa al corteo, il percussionista dai lunghi capelli neri che gli ricadevano sulla fronte si dava arie da direttore d’orchestra e, per distinguersi dagli altri componenti del gruppo, vestiti di un rosa acceso, portava un gilet azzurro chiaro il cui colore strideva orribilmente con quello delle frange che ornavano la camicia. I suoi colleghi gli facevano largo tra gli invitati, come fosse un pioniere dello spazio, mentre lui avanzava completamente assorto nel pezzo che stava suonando alla tabla.
Ahmed Kamàl era solo il fotografo delle nozze. Come tutti i fotografi, era consapevole dell’importanza del suo ruolo in quell’evento, anche se purtroppo il suo lavoro non riceveva mai un riconoscimento adeguato. Eppure, a suo parere, un matrimonio non era cosa da poco: bisognava lottare per cogliere l’istante che sarebbe diventato un ricordo per la vita, anche se nessuno avrebbe più pensato a lui. Un po’ come il fuco, che si accontenta del suo ruolo di fecondatore e subito dopo muore come un martire, per far sì che la vita continui e gli altri mangino il miele.
Ahmed aveva un colorito olivastro. Non abbandonava mai i suoi jeans e la giacca marrone chiaro, da protagonista di una serie tv anni ottanta. Gli mancavano soltanto delle toppe in pelle più scure sui gomiti per sembrare Chuck Norris, anche se in cuor suo era convinto di somigliare molto ad Amr Diab. Di fatto però, per quanto si sforzasse di vestirsi e persino di camminare come il famoso cantante, nessuno aveva mai notato quella somiglianza. Ci teneva moltissimo ad apparire elegante, e per questo – oltre che per qualche sporadico esercizio di body building al Salah Golden Gym, che gli dava l’aspetto di un giovane sportivo – spendeva la maggior parte delle sue entrate. Di statura media, portava degli occhiali da vista che mitigavano l’insolenza dei suoi occhi, sotto i quali comparivano le note mezzelune nere tipiche di chi lavora la notte, e compensavano una vista talmente debole che persino lo scrittore cieco Taha Hussein ne avrebbe avuto compassione.
Ahmed non andava mai a letto prima delle sei del mattino e non lasciava mai una festa di nozze senza ripensare a qualche bella ragazza che, a sentir lui, aveva continuato a seguirlo con lo sguardo. Dopo averla ritratta in foto, con la speranza di incontrarla di nuovo prima o poi, apportava qualche piccolo ritocco all’immagine prima di mostrarla ai colleghi, cui raccontava che la fanciulla in questione, pazza d’amore per lui, gli aveva chiesto una foto e il numero di telefono. L’aveva vista piangere, avrebbe detto ancora, perché era già impegnata, e il suo fidanzato era lì accanto a lei, ma avrebbe desiderato poter tornare indietro nel tempo e conoscerlo prima. Ahmed prese la macchina fotografica per la tracolla, rivelando a chi gli stava intorno la sua abilità nel maneggiarla, quasi fosse nato portandola già al collo. Oltretutto, il peso della macchina lo aiutava ad allenare i muscoli delle braccia, facendogli così risparmiare un po’ delle lire che spendeva per la palestra.
La banda aveva smesso di suonare ed era subentrato il dj, che aveva la musica nel sangue. Mise su uno zar per gli sposi e i parenti. Oltre a scacciare gli spiriti maligni, lo zar serviva a far fare una sauna allo sposo, calmandone i bollenti spiriti e allontanando dalla sua mente il pensiero della prima notte di nozze.
Ahmed Kamàl cominciò la sua quotidiana battaglia per ritrarre gli sposi evitando che mani, spalle e teste degli invitati si intromettessero offuscando la purezza dell’istante; si concentrava poi sulle amiche della sposa, per le quali il matrimonio era un evento speciale, una sorta di sfilata di Coco Chanel. Indossavano abiti scollati e foulard trasparenti: chissà, magari avrebbero incontrato l’uomo della loro vita, e se anche non fosse stato, si sarebbero accontentate di vedersi riflesse negli occhi dei ragazzi.
Vertigo, Ahmed Mourad, traduzione di Barbara Teresi, Marsilio, p. 256 (18 euro) anche in ebook
3 comments
Non mi stupisce che sia edito da Marsilio.
A dir la verità, letto l’incipit, mi pare molto, troppo simile nello stile a tanti altri del genere: si vede che l’ondata di nuovi gialli, ormai non più solo scandinavi, non va ancora esaurendosi.
Peccato, perché qui di arabo vedo solo l’ambientazione, per altro sfumata.
Dove gli scandinavi infilano vino pregiato, caviale e musica jazz per dare un tono, qui troviamo danzatrici del ventre ecc. Ma lo spirito etnico manca.
Il genere è come un ring e i contendenti se la devono vedere con tanti, tanti brutti ceffi… il lettore che ama il genere, ahimè, se la deve vedere con una miriade di cloni. Con voci che “assomigliano a”, trame che ricordano innumerevoli altre trame. Qui in realtà si travalica il giallo classico e si sguazza nel pulp e nel truculento (insomma ne muoiono parecchi e i cadaveri sanguinano non poco). Dipende, da lettore, cosa cerchi.
Io metto gli incipit proprio per giocare alla libreria virtuale e permettere a chi è a caccia di storie di sfogliare le prime pagine.
Ciao, Denise!
E’ quello che mi piace del tuo blog 😉
Personalmente, non cerco la ‘novità a tutti i costi’, ma l’originalità sì.
Perciò declino questa proposta: di sanguinolento accetto solo l’ottimo Lansdale.
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