È il 6 aprile 1917. È un momento drammatico per il Paese, c’è la guerra e le donne lavorano nelle fabbriche di munizioni e tessili. Lavorano loro perché gli uomini stanno combattendo. E Rosalyn Taylor, nel cortile della fabbrica della Doyle & Walker munizioni, trova un pallone da calcio. E per una volta Rosalyn non era scappa portandosela via la palla…
Sì, perché se sei l’unica femmina in una famiglia con sette fratelli e il calcio è il pane quotidiano, il massimo che ti è concesso è di sentire ramanzine e ramanzine su come si calcia e su dove si guarda mentre si calcia ma di giocare per davvero, non se ne parla. Il gioco, semmai, è “giocare a tu non sai giocare”.
Ma stavolta Rosalyn non solo non scappa con il pallone ma permette di giocare anche alle altre. Ed è Violet Chapman a fiondarsi sulla palla gridando come un’ossessa. Così, in una pausa pranzo come tante, nasce il calcio femminile in Inghilterra.
Iniziano per caso a tirar calci a un pallone, poi ci prendono gusto, si allenano, stabiliscono i ruoli. Finché il capo, un giorno, se ne accorge e propone loro di disputare una partita vera. Si scopre che sono brave. Hanno successo e ci sono pure i tifosi! Le uniche che storcono il naso sono le istituzioni del calcio maschile che non vedono l’ora che tutto torni alla normalità.
Ma non conta, perché queste undici donne scoprono che si può uscire dall’invisibilità. Che è possibile fare la differenza. Si può usare la propria imponenza per proteggere la porta, usare la propria voce per difendere le compagne dai soprusi… Si può contare. Senza essere delle eroine, anzi, solo donne imperfette con una ossessione: il calcio. Il gioco. La vita.