“È una storia di formazione – intesa come il delicato passaggio dall’adolescenza all’età adulta – una storia d’amore, di passione per le idee e di iniziazione alla violenza. Ma è soprattutto il racconto del confine labile tra il cosiddetto successo e il cosiddetto fallimento.
“Ecco ho parlato pure assai…
Risata generale.
“Perciò adesso mi taccio per rispondere a domande, se è possibile, cattive… e l’ultima volta che l’ho detto mi sono pentito.”
Ieri, verso le 18, se aveste sbirciato dentro la sala Montanelli di Milano, avreste scoperto uno scrittore alle prese con una gragnola di domande. A fargliele? Una pletora di blogger e giornalisti. E si sa, guai a dar loro un dito… stavolta le falangi erano quelle dello scrittore Gianrico Carofiglio e sulla graticola c’era Il bordo vertiginoso delle cose, il suo ultimo romanzo. Questo è il resoconto di cosa è saltato fuori durante la chiacchierata.
È poco disciplinato. E tutte le volte che ha una idea promette: “Stavolta inizierò a lavorare subito!”
Solo che basta questo buon proposito per farlo sentire in diritto del premio, cioè non scrivere per un’altra settimana.
Poi, quando si avvicina la data della consegna, comincia a lavorare duro ma in maniera molto disordinata. E man mano che la scadenza si fa pressante, il lavoro diviene ossessivo. Ma non passa giorno che, al risveglio, l’idea di sedersi alla maledetta scrivania gli risulti opprimente: “Il desiderio è davvero quello di fare qualsiasi altra cosa”.
È incredibile come, quasi per magia, nell’ultima ventina di giorni le cose vadano a incastrarsi alla perfezione.
Sembra il racconto di una piccola battaglia.
Perché Carofiglio confessa candidamente che, per lui, scrivere non è affatto divertente. E se lo è, c’è di che preoccuparsi: se stai raccontando qualcosa che vale la pena essere raccontata, farlo è doloroso. Perché la fiction ti costringe a confrontarti con ciò che non conosci, che non hai capito. Qualcosa che scopri e comprendi scrivendo. Significa farsi delle domande e non dare nulla per scontato. E siccome è problematico, bene non si sta.
Scrivere è sempre una fatica. L’alternativa per lui è tra difficile e molto difficile. Tanto che quando sente colleghi che fanno una prima stesura perfetta, rimane strabiliato. A lui spesso sembra addirittura di non saper scrivere in italiano… e infatti la prima bozza è colma di errori.
Scrivere è penoso. E lo è ogni volta. E ogni volta si chiede come diavolo abbia fatto a finire il precedente romanzo. “Alcuni scrittori ostentano una sicurezza che io non ho… qui c’è un parallelo con il fare a botte. Anche in quel caso la sicurezza non l’ho mai avuta! Ero tecnicamente capace, però avevo paura prima, durante e dopo la scazzottata. Solo che da fuori sembrava il Far West.”
Scopriamo che per venti anni ha provato a scrivere e non ha fatto altro che rinviare. Arrivava al massimo a cinque pagine e poi sentiva di non esserne capace e lasciava perdere. Accantonava, pensando di non essere ancora pronto e che il momento giusto non fosse ancora arrivato.
Quando iniziò Testimone inconsapevole è sopraggiunto lo sblocco.
Non era un gran momento e stava trascorrendo una estate orribile. Poi è arrivata la sensazione, la convinzione di non avere scelta, di doversi sedere e scrivere quella storia che – più o meno – gli stava venendo in mente. E per una strana alchimia, dall’inizio di settembre ha iniziato a scrivere tutti i giorni. Tornava dall’ufficio e diceva “vado a lavorare” e si rintanava in mansarda.
Ci sono voluti nove mesi. E a maggio il romanzo era pronto.
Fece pure un rituale scaramantico: “Non sono un fumatore” ci racconta. “Però rubacchio qualche sigaretta. E mi dissi: finché non finisco il romanzo posso solo accendere la sigaretta a qualcun altro. Voi potete immaginare… la gente quando entravo in un posto, scappava! E poi, ho finito, e quella sigaretta me la sono accesa, e fu una cosa piuttosto forte.”
E le cose sono andate piuttosto bene!
Quando non aveva ancora idea di come funzionasse il mondo editoriale, in un modo un po’ naif direbbero alcuni (lui dice “fu un pensiero imbecille”), aveva deciso che con i guadagni delle vendite si sarebbe comperato uno studio. Più che ingenuo fu preveggente, perché il libro ha venduto e lo studio se l’è comperato per davvero. Nel punto più bello di Bari, sulle mura medioevali, vicino alla basilica di San Nicola: “Apri la finestra e si vede solo il mare, una cosa di una bellezza commovente”.
Non ci ha scritto una sola pagina!
Ha scoperto che per sentirsi bene, per sconfiggere le ansie della pagina bianca, l’ideale è il caos. Bar, locali, aeroporti, treni, anche le lunghissime sedute in Senato… tutto purché ci sia casino.
E lo studio, alla fine, lo ha affittato.
Pare quasi che la scrittura gli sia capitata. Così come confessa di aver fatto il magistrato per caso. Pure a fare il pubblico ministero c’era finito per una serie di coincidenze. Non si era nemmeno mai detto “da grande studierò giurisprudenza”. Decise di iscriversi alla facoltà l’ultimo giorno utile, perché prima era stato in bilico tra medicina, informatica, fisica, filosofia e poi aveva finito con il fare la tipica scelta di chi non ha deciso nulla e quindi vuole prendere tempo.
E alla fine il mestiere è arrivato, anzi, ne sono arrivati due.
A proposito delle differenze con gli altri scrittori aggiunge: “Molti dicono che quando stanno scrivendo non leggono, perché non vogliono essere contaminati. Io voglio essere contaminato!” ci dice convinto. “Mi piace che in quello che scrivo si trovino le tracce di quello che stavo leggendo. In alcuni casi è molto visibile, in altri me ne accorgo solo io. Succede pure che io non me ne renda conto e sia un lettore a farmelo notare.”
Non ha idee preconcette sulla letteratura, nessun timore reverenziale. Un capolavoro si fa con tutto, alto e basso, dipende come li si mette insieme.
La frase che ha preferito in questo romanzo? “Scrivere è un mestiere da duri.”
La totale assenza di rischio nei processi di crescita non è una buona cosa, ci ha detto all’inizio. “L’aver attraversato esperienze forti influisce nel processo di formazione di c
iascuno”. Queste, un pizzico di fortuna, una buona dose di destino lo hanno reso ciò che è.
“Mi considero una persona incredibilmente fortunata” e sentirlo dire, ogni tanto, è travolgente.
Il bordo vertiginoso delle cose, Gianrico Carofiglio, Rizzoli, p. 315 (18,50 euro) anche in ebook
2 comments
Non so. Non ho mai letto nulla di Carofiglio. Mi suona strano, nell’intervista, che dica “l’idea di sedersi alla maledetta scrivania gli risulti opprimente: “Il desiderio è davvero quello di fare qualsiasi altra cosa”. Sembra che scrivere non gli piaccia. Buffo per uno scrittore, no? Posso capire un battilastra o uno sbucciatore di gamberetti, i quali possono giustamente affermare che il loro lavoro è pesante o troppo ripetitivo, ma uno scrittore non credo abbia questo diritto. Ciò detto leggerò qualcosa di Carofiglio, lo farò senz’altro.
Mi è parso uno che quando scrive si sente sulla graticola. Messo in discussione. E pure un po’ in pericolo.
Ma ha ribadito che scrivere gli piace anche se lo mette in difficoltà.
In effetti è la cosa meno peculiare del pezzo… nel senso che la maggior parte degli autori si dichiara sofferente e in rapporto ambivalente con il mestiere. Per esperienza personale quelli che si divertono un mucchio sono i più diabolici e quelli più sicuri. Quelli che scrivono, spesso, di cose dolci e romantiche ma che nella vita son poco dolci e poco romantici 😉 Gli sceneggiatori, invece, a scrivere pare si divertano un mucchio.
E comunque uno che ci mette venti anni per permettersi di scrivere il primo romanzo qualche conto in sospeso con la scrittura ce l’ha!
Attendo il parere di lettura 😉
D’ora in poi vorrei dedicarmi un po’ alle interviste ai big. Perché, come ben sai, salvo eccezioni non parlo dei libri dei big (i loro libri son già dappertutto). Ma raccontare gli scrittori, mi piace, sempre.
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