Tutto è iniziato con Sottotraccia. Pioggia Battente, il suo secondo romanzo, mi aveva definitivamente conquistato. E poi? E poi me lo ero un po’ perso (colpa mia, mica sua!).
Però, se hai amici lettori, tutto si sistema. Io, per esempio, sono stata redarguita: “Lo hai letto Soltanto silenzio, guarda ché Cassani è decollato!” Nel letturese, l’oscuro linguaggio di noi fiction-maniaci, significa che si tratta davvero di una buona prova.
Quando si dice lettrice avvisata…
In effetti, Micuzzi lo ritrovo più in forma che mai. Alessandro Maria, rosso di pelo e arruffato, oltre alla grappa Nardini e ai toscanelli, ha una passione per i dettagli. Una inclinazione naturale per metterli insieme, vederne i legami. I legami, quelli della sua vita privata, invece sono spesso sacrificati al lavoro. Stavolta no, infatti il lavoro si mischia in modo preoccupante – per il povero Micuzzi – con faccende decisamente personali che prendono il nome di Margherita, la sua ex moglie. La quale, però, ha intenzione di diventare moglie di nuovo, non sua ovvio, e sta infatti per risposarsi. La donna pretende pure che Micuzzi faccia da testimone e che incontri e conosca Gaetano Mastronardi, il futuro consorte.
L’uomo non semplifica certo le cose a Micuzzi visto che la sera dell’incontro, in un ristorante di via Padova, pensa bene di diventare bersaglio di una coppia di killer.
Perché diavolo lo vogliono morto? È davvero uno scambio di persona, come sostiene Mastronardi?
Se siete lettori assidui di Cassani, sapete bene che da Città Studi, il commissario è stato sbattuto, pardon, trasferito in via Padova (commissariato che in realtà non esiste) e più che di indagini si occupa di “presidiare il territorio” (e il territorio di questa storia è proprio quello tra via Padova, Piazza Lima e Piazzale Loreto). Nonostante il suo ruolo, viene coinvolto in questa indagine, e scopre presto che la faccenda di Mastronardi si lega con delle Remington numero 8: no, non sono pistole (anche se possono far danno comunque…) ma macchine da scrivere (ecco spiegata la copertina) che transitano verso il Sud. E per stare in tema, meglio, in parola, in via dei Transiti c’è una libreria dove (pacchi sospetti a parte), dopo il tentato omicidio del Mastronardi, scoppia un incendio che si rivela doloso. E indovinate di chi è la libreria? Del fratello di Gaetano.
Dettagli? Certo, che per Micuzzi sono indizi da collegare. Ma per farlo serve un salto, serve un passo indietro nella storia che ti permetta di guardare meglio pure al presente. Così da capire. Un tuffo nell’ottobre del 1978. Peccato che la verità non faccia comodo…
Dirvi altro sarebbe un peccato, ma il peccato vero sarebbe non leggere (o regalare) una storia architettata davvero alla grande, ben scritta, con tante idee, trovate narrative e personaggi che son persone. Un romanzo che ti riconcilia pure con il caotico e altalenante mondo editoriale ché, grazie a dio, qualche volta scova e coltiva i suoi talenti.
Un regalo per chi? Ama i gialli, i polizieschi, le spy story, le indagini, Milano, la Storia, i personaggi con intricate faccende personali, i divorziati.
Soltanto silenzio, Massimo Cassani, Tea, p. 367 (15 euro) ebook (7,99)
Incipit
Se non un colpo di pistola, cos’era stato allora quello? Un petardo fuori stagione? O un motorino con la marmitta in pappa che aveva scoreggiato su una via Monte Nevoso deserta, in una domenica mattina fotocopia di tante altre?Aristide – pupille dilatate nel buio della sua camera in attesa del trillo della sveglia – cercava il sonno che l’aveva abbandonato, chissà come mai così presto. E non certo per il solito passaggio dei treni, così frequenti che l’abitudine li aveva fatti andare oltre la soglia dell’udibile. Forse era per via dell’ora legale che da quella notte era stata messa in soffitta. E alla sera il buio sarebbe arrivato molto prima. Di botto. O forse per il pensiero della partita del pomeriggio all’oratorio del quartiere Casoretto: quattro pedalate veloci da Lambrate a là senza neppure un alito di fiatone. Loro contro gli altri, dove gli altri stavano per quei tizi grossi dell’oratorio di una zona periferica di Milano sentita soltanto nominare. E l’arbitro era un ragazzino del Ticinese con i capelli rossicci e ispidi e impettinabili, mica tanto sveglio: c’era da prepararsi a prendere un sacco di calci negli stinchi, tanto quello manco se ne sarebbe accorto. Gli adulti avrebbero guardato la partita con gli occhi molli, l’orecchio attaccato alle radioline a transistor, la barba sfatta e la pancia satolla di risotto e arrosto. Nell’aria fumo di sigarette popolari, MS o Nazionali senza filtro.
Aristide non fumava, non ancora almeno, ché a dieci anni – diceva suo padre – è presto! Anche se lui, il padre, aveva cominciato proprio a dieci, giù, nel paesello assolato di Trinacria. E ora teneva la Nazionale con la sinistra, visto che l’altra l’aveva persa per colpa di uno stronzo di rapinatore dalla mira per fortuna del cazzo, che invece di centrare la divisa da carabiniere dritta in petto gli aveva fatto esplodere la mano destra. Roba di nove anni prima, ma il padre ne parlava ancora come se avesse fatto la guerra, e la mamma s’incazzava perché i figli non le devono mica sentire quelle cose lì.
Pure Aristide voleva fare il carabiniere, ma non lo diceva mai e la mamma non lo sapeva. E mentre lui se ne stava lì, nel buio, e pensava alla partita, al guanto nero del padre, alla divisa scura con la riga rossa sui pantaloni che avrebbe indossato da grande, quel botto secco gli aveva bloccato il fiato per un momento.
Suo fratello Gaetano, invece, fumava. Il carabiniere però non lo voleva fare; diceva «servi del potere!», lui, e litigava a tavola con il padre. Chi aveva ragione: papà o Gaetano?
Dopo un istante breve come un battito di ciglia, i colpi erano diventati due. L’altro metallico, isterico.
Aristide aveva appoggiato i piedi nudi sul pavimento, vicino al borsone della partita, e aveva sentito freddo. Gaetano non si era svegliato subito. Aristide vedeva le coltri mosse dal suo respiro.
Dalla persiana chiusa della camera ora filtrava soltanto silenzio.
Ma era durato un secondo.