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I caratteri tipografici
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Questioni di font (e accenti sballati)

La storia, per nulla scontata, della nascita di un carattere tipografico e della ricerca di una identità editoriale. 

Il refuso scappa, talvolta, e imbarazza l’editore, innervosisce gli autori e abbassa la qualità di un libro. È, in effetti, un piccolo sgarro fatto al lettore e alle parole.

Premesse a parte: avete libri accanto a voi? Ne avete dell’editore Einaudi? Se sì, prendete un titolo a caso della Collezione di poesia, la “collana bianca” (così detta per la copertina), o uno Stile Libero: vi accorgerete che ci sono diverse stranezze circa l’uso degli accenti acuti e gravi.

Di cosa parliamo? Qui potete fare un ripasso della regola (si fa per dire) ed ecco qualche immagine a riprova del fatto che i tipi di Einaudi preferiscono i cosí  ai “così” e i lí ai “lì”. E pure i “più” si trasformano in piú.

Poesia Einaudi 1Poesia Einaudi 2Poesia Einaudi 3

Siamo nel bel mezzo di una rivoluzione e non ne sapevate nulla? Alcune vocali sono in sommossa e hanno deciso di fare di accento loro?! Se state gridando al sacrilegio – per i correttori bozze, suggerisco comunque una dose generosa di Maalox – sappiate che, piaccia o no, si tratta di un vezzo.

Tutta colpa di un font. Perché, se Adelphi  ha scelto il Baskerville, Feltrinelli ha preferito il Century, Mondadori il Palatino… Einaudi per le sue edizioni ha fatto creare un carattere nuovo.

Giulio Einaudi decise infatti di regalare identità alla propria immagine anche attraverso un carattere tipografico esclusivo. L’editore lo scelse insieme con il responsabile editoriale Oreste Molina, capo dell’ufficio grafico. Fino ad allora i libri venivano composti in linotype con caratteri eterogenei (Bembo, Bodoni, Caledonia, Granjon). L’idea? Realizzare un nuovo carattere e utilizzare la monotype, una tecnica di stampa più accurata ma costosa, oltre che lenta (dettagli che, su pressione di Molina, fecero abbandonare la scelta della monotype).

Nel 1956, Giulio Einaudi per la rivoluzione si rivolse alle Officine Simoncini: un’azienda bolognese specializzata in ricambi per Linotype che, dopo la guerra, aveva aperto al suo interno un ufficio di progettazione di caratteri con ben dieci disegnatori. Francesco Simoncini, appoggiandosi alla fonderia Ludwig & Mayer di Francoforte, realizzò così un Garamond (il carattere disegnato dal francese Claude Garamond nel Cinquecento): ci vollero ben due anni.

Da allora è il carattere usato per tutti i libri della casa editrice. Un font di grande successo che è stato usato da molte altre case editrici come Bompiani, BUR Biblioteca Universale Rizzoli, Feltrinelli, Guanda, Iperborea, Longanesi, Nottetempo, Salani, Sellerio, Saggiatore…

Quando a usarlo è Einaudi, però, salta all’occhio! L’editore, infatti, si picca di adoperare gli accenti grafici sulle “i” e sulle “u” per così dire sballati: acuti al posto di quelli gravi.

Se a vederli vi viene il mal di mare, potreste tentare di approfondire la questione leggendo questa attenta analisi di Paolo Matteucci oppure questa. Correttezza o no, il problema oggi è che in pochi usano gli accenti con cognizione e nessuno o quasi conosce questa peculiarità di Einaudi né si interroga sulle vocali aperte o chiuse. Chi sa, o crede di sapere, si attiene alla regola imparata a scuola. Il rischio? È che, imbattendosi in un cosí, si pensi a una sciatteria dell’editore o, peggio, a un’ignoranza dell’autore. Magari servirebbe un libretto di istruzioni…

O forse dovremmo chiedere aiuto ad Andrea De Benedetti autore di La situazione è grammatica. Ovvero come imparai a non preoccuparmi e ad amare gli errori pubblicato proprio da Einaudi e distrarci così con i refusi veri e propri.

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12 comments

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sandra 03/05/2016 at 12:53

Davvero affascinante questa storia del carattere nuovo per Einaudi.
Da lettore mi irritavo per i refusi, ora da autore ho capito quanto siano insidiosi, ne ho appena beccati due sul mio libro fresco fresco, mi appello alla clemenza, spero che i lettori siano meno pignoli di quanto ero io prima di essere dentro a letture infinite col retino delle farfalle per stanarli.
Tuttavia a parte accenti e piccole grandi sviste, ho letto libri di editori Big con nomi di protagonisti che cambiano (Daniele che diventa Davide o viceversa) forse è peggio.

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Barbara 03/05/2016 at 13:33

Credo che il lettore medio (e mi ci metto dentro anch’io di sicuro) non se ne accorga proprio della differenza.
Nel momento in cui ho letto l’articolo, stavo controllando sulla tastiera come sono messe la “ì” e la “ù” di default.
Non sono sinceramente questi gli errori che rovinano la lettura.

Sneocdo uno sdtiuo iglnese, non irmptoa cmoe snoo sctrite le plaroe, tutte le letetre posnsoo esesre al pstoo sbgalaito, imnptortane sloo che la prmia e l’umltia letrtea saino al ptoso gtsiuo, il rteso non ctona. Il cerlvelo è comquune semrpe in gdrao di decraifre il pzuzle, pcheré non lgege ongi silngoa ltetrea, ma lgege la palroa nel suo insmiee… vstio?

I refusi veri sono quelli “logici”. Un personaggio che improvvisamente cambia nome. Un testo scritto in terza persona che con qualche verbo in prima persona. Che non è il pensiero del personaggio (che in genere va scritto in corsivo, per dire), perchè allora tutta la frase sarebbe in prima persona. No, solo qualche verbo qua e là. Oppure qualche frase “spezzata”, dove intuisci è passato un copia-incolla rabbioso.
Perciò…credo che gli accenti facciamo venire il mal di mare solo agli editor! Sorry! 😉

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Barbara 03/05/2016 at 13:34

facciamo -> facciano
Il refuso è sempre lì col coltello in mano….

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Chiara Beretta Mazzotta 03/05/2016 at 13:42

Mani in alto! 😉

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Chiara Beretta Mazzotta 03/05/2016 at 13:42

Oh guarda io quando leggo, cerco di non badare ai refusi (perché già ci bado troppo spesso) ma moltissimi lettori si inalberano. Poi, per esempio, un refuso in un testo poetico è un insulto alle parole…
Di sicuro gli errori logici sono più che semplice sciatteria e quelli sì che sono un guaio.
Ma se di lavoro vai a caccia di accenti sbagliati, altro che mal di mare… tocca disimparare quello che hai imparato (che, come ben sai, è faticoso: si tratta di andare contro le semplificazioni del cervello che è adattivo e va in cerca di senso).

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El Cugino DelPapa 04/05/2016 at 11:04

Fantastico Barbara, fantastico! 😀 Non avevo mai letto così bene un testo come quello da te rivisto e risistemato parola per parola! 😀
Ora lo so: il dislessico non sono io, ma quelli che si ostinano a scriver le parole correttamente! Ahahah!

PS: i refusi che contano sono quelli non scritti.
PPS: dei refusi degli altri non me ne cale più di tanto, sono i miei a darmi molto fastidio.
PPPS: i refusi degli altri saltano subito all’occhio, i propri no perché la memoria ti fa leggere la parola come hai pensato di scriverla, non come l’hai scritta.
PPPPS: comunque se qualcuno fosse interessato a farmi fare il correttore di bozze (il mestiere dei mie sogni), sappia che all’occorrenza so diventare aquila! 😀
PPPPPS: vero, i refusi in una poesia andrebbero puniti con la reclusione da 5 a 10 anni. Senza condizionale. (Ma come si fa!?) 😀
PPPPPPS: pare che adesso riesca a postare di nuovo tramite PC… grazie1000tuttoattaccato
PPPPPPPS: come si fa a mettere una foro* o qualcosa di simile nel riquadro del cugino?

*refuso 😉

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Andrea 03/05/2016 at 19:13

Credo che ci sia un piccolo refuso nella data: 1956 non 1856 😉 (I refusi sono dei piccoli nemici che sanno nascondersi ovunque, soprattutto in articoli in cui si parla di loro). Detto questo, neppure io ci avevo mai fatto caso agli accenti sulle ú e le í dei libri Einaudi. Beh, gli risulta comodo quando devono riportare dei nomi spagnoli, perché in quel caso gli accenti acuti abbondano! 🙂

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Chiara Beretta Mazzotta 04/05/2016 at 06:56

Assolutamente! È 1956. I refusi sono un problema soprattutto se te la canti e te la soni, cioè se scrivi e rileggi. Avendo nelle orecchie il testo, fatichi a trovare errori e magagne. Ecco perché i correttori bozze sono preziosi.
Credo che in pochi se ne accorgano degli accenti 😉

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Francesco (Il Letterino) 06/05/2016 at 15:03

Il Matteucci m’ha convinto. E devo dire che avevo sempre avuto il dubbio sulle ì e ù.
La u è certamente chiusa, eppure sulle tastiere italiane ha lo stesso accento della a, che è certamente aperta. Ma mi sono sempre fidato. E sfottevo gli spagnoli!
Adesso devo rimappare tutte le mie tastiere! (non so nemmeno se si possa…)

Sul fatto che invece i francesi mettano gli spazi prima di segni di punteggiatura (due punti, punti esclamativi/interrogativi) abbiamo teorie?

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Gianni 20/05/2016 at 16:13

Insomma fusi e refusi! in questo caso storici.
E sulle stampe sbiadite? Cioè quel grigio triste su carta non proprio bianca? Aiutate un vecchio miope vi prego! Altro che accenti a caso. 😉

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Chiara Beretta Mazzotta 22/05/2016 at 13:09

Il grigio dovrebbe riposare la vista. Il problema è la grandezza del font. Non è una caccia al tesoro, ecco 🙂 Un saluto da una miope

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Gianni 22/05/2016 at 22:03

E’ vero! Non è una caccia al tesoro. 🙂

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