È possibile crescere figli straordinari fuori dal mondo? Educarli con i libri, la letteratura, la musica, la disciplina facendoli vivere lontani dalla società? Se lo chiede un film avventuroso e coinvolgente interpretato da un eccezionale Viggo Mortensen.
Esce nelle sale italiane il 7 dicembre Captain Fantastic. Una data perfetta perché è il compleanno di Noam Chomsky, linguista e teorico della comunicazione, quello che definiva l’uomo “un animale sintattico”. E la famiglia Cash non festeggia il Natale, i doni se li scambia proprio il giorno della nascita di questo filosofo anarchico.
Non si tratta solo di rompere le regole. Si tratta di non sottomettersi alla barbarie della civiltà. Di sottrarsi al capitalismo cieco, alla mancanza di libertà e bellezza. Immaginate una coppia che dopo varie peregrinazioni ha deciso di stabilirsi lontano dalla società nelle foreste del Nord America. E qui cresce i propri figli, quattro femmine e due maschi tra i cinque e i diciassette anni.
Andare a fare la spesa significa cacciare e coltivare. Fare sport vuol dire arrampicare e correre per i monti. Rilassarsi è respirare e meditare ascoltando la voce della natura. E divertirsi è leggere e fare musica insieme. Nessun confort ma tutto il necessario per vivere.
Bisogna però essere forti e Ben, uno straordinario Viggo Mortensen (che rende lampante quanto conti la fisicità nella recitazione), a un certo punto deve fare i conti con questa scelta nel modo più violento. Deve gestire uno strappo che lo costringe a tornare nella società con la sua famiglia.
Il confronto è impietoso. Perché anche se i suoi figli hanno nomi unici perché inventati, dicono e conoscono cose sensazionali, non hanno paura della verità e delle parole che la esprimono, sanno giudicare e hanno il coraggio di perseguire i propri obiettivi, sono dei freak. Strane creature che paiono piovere da un altro pianeta.
“A meno che non sia scritto in un cazzo di libro io non so nulla” urla Bodevan (George MacKay) a suo padre Ben. E in effetti suo figlio maggiore pare del tutto impreparato per vivere nel mondo. E quando Ben comincia a raccogliere gli indizi del fallimento del proprio modello educativo, quando intuisce gli effetti del suo errore è l’inizio di un disarmante esame di coscienza.
“A definirci sono le nostre azioni non le nostre parole” e Ben agisce, sempre. Non subisce. E non subiscono i suoi figli che hanno imparato a portare a termine le “missioni” che la vita ci impone.
Scritto e diretto da Matt Ross, al suo secondo lungometraggio, Captain Fantastic è una pellicola sorprendente con una fotografia eccezionale (merito di Stéphane Fontaine). A parte qualche scelta furbetta – vestiti, colori, musiche da spot pro hipster – è un film che si interroga nel profondo sul ruolo di un genitore. È un viaggio di formazione del formatore, qualcuno che si interroga con onestà, e senza sconti, sulla propria condotta, qualcuno che chiede scusa e ammette “ho sbagliato”.
Il tema principale sono le scelte che un genitore è costretto a fare. Ma quello più sottile riguarda la complessità di sapere cosa sia giusto e cosa sia sbagliato. Un dilemma che riguarda tutti. Per questo dobbiamo agli altri rispetto. Rispetto per le loro regole, per il loro sguardo sul mondo, perché non sappiamo – mai – cosa sia davvero il bene.
È un film che piacerà a chi ama la letteratura e i libri (straordinario il dialogo su Lolita) e sa che “non serve a niente leggere un libro se ci si limita a far scorrere le parole davanti agli occhi dimenticandosene dopo dieci minuti. Leggere un libro è un esercizio intellettuale, che stimola il pensiero, le domande, l’immaginazione” così scriveva Noam Chomsky (e vi verrà una matta voglia di leggerlo, se ancora non lo avete fatto!).
“Abbiamo costruito un paradiso partendo dalla Repubblica di Platone, qualcosa di unico per il genere umano” dice la moglie a Ben. E la felicità di un paradiso forse è insostenibile, come è insostenibile il prezzo che ci impone e quindi, prima o poi, tocca fare i conti con la realtà. Ma gli uomini straordinari non si limitano ad adattarsi al mondo e portano con sé un po’ di fantastico.
Voto: 7.5
4 comments
Tra le tante domande che mi sono venute in mente guardando questo film, mi sono ritrovato, in maniera provocatoria, a riflettere su questa: Perché l’attaccamento allo schermo viene visto come un allontanamento dalla realtà, ma non si ha la stessa considerazione nei confronti della lettura? In fondo, anche i libri creano distacco dal mondo reale. E qui ci agganciamo alla frase da te citata: “A meno che non sia scritto in un cazzo di libro, io non so nulla”.
lnoltre, il padre conduce i loro figli ad un continuo addestramento, un “essere pronti a”, ma questo loro preparsi, (“faceva parte dell’addestramento”, si giustificherà, in un episodio di furto, Ben, nei confronti del suocero che chiede spiegazioni, a circa metà film) diventa poi l’unico modo che conoscono per vivere. Una crepa tra il conoscere, il sapere, e il saper fare, dove quei geni straordinari dei figli incarnano la solitudine che spesso il genio vive, forse in questo caso più ingenuamente o, semplicemente, privi di una scelta tra il poter scegliere un modo di vivere a loro più consono.
Quando, dalle parole della moglie, in una delle sue lettere, parla di Repubblica di Platone, ormai i conti sono già fatti, e fa sorridere sapere che, una delle accuse che Socrate porterà verso questa città ideale, nei confronti di Platone stesso, è proprio il fatto che sia ideale, ovvero staccata dal mondo, come se fosse una fotografia, un’immagine fissa ed eterna, che non può impregnarsi del vivere comune (in questo caso, direi la società che Ben rinnega e da cui tiene lontano i propri figli), e per questo non può funzionare, se non come, appunto, qualcosa che alla fine risulta essere insostenibile.
Ciao Stefano,
non dico nulla sulla tua chiusa, se no facciamo spoiler!
La cosa che amo di più, sia dei libri sia dei film, sono le domande. I percorsi che forniscono risposte li trovo didascalici. E questo film è tutta una grande domanda e tu spettatore durante la visione oscilli tra un punto di vista e un altro, tra un estremo e l’altro. Questo bilico mi piace immensamente perché mi permette sperimentare un punto di vista comodamente seduta in poltrona… senza far danni a nessun bambino!
Ben è commuovente perché ci crede nella sua illusione. Ma è un uomo che costruisce, non uno che si barrica dietro alle mura della sua fortezza. Quindi si mette in discussione (cavoli che qualità preziosa!).
È un padre amorevole o è un dittatore? Tutte e due.
Un paradiso è meraviglioso o spaventoso? Tutte e due.
I figli vanno protetti o resi liberi. Tutte e due.
È una maledetta faccenda di misura. Dici poco, insomma!
Leggere tantissimo e bene non ti insegna a vivere. Ma (forse) ti permette di vivere con occhi diversi (o forse di avere più di due occhi per guardare). Un “cazzo di libro” non basta. Serve anche la vita.
E lo schermo più che un allontanamento dalla realtà viene vissuto come una fruizione passiva di una realtà. Ma non c’è bisogno del film, basta aprire un giornale e guardare come è trattato tutto ciò che è digitale e tecnologico (quindi freddo, spoetizzante, malsano…).
Subisco in modo ebete un videogioco? O vivo una realtà altra che richiede precise competenze? Tutte e due.
E anche qui occorre misura.
Insomma per essere straordinari tocca saper fare bene i calcoli!
La contraddizione, da lì non se ne esce, hai proprio ragione: ad esempio esistono videogiochi che sono alla stregua di opere d’arte, per le competenze storiche e artistiche con cui vengono costruiti (ma pochi se ne interessano), per non parlare dell’esperienza estetico-visiva, che ha raggiunto livelli fino a pochi anni fa impensabili. Poi troviamo libri che, una volta letti, ci pentiamo (o quasi) di averlo fatto.
Inoltre, dici proprio bene nella seconda parte: un libro non basta, serve la vita. Tant’è che, suppongo, per scrivere un libro, un minimo bisogna vivere, fare esperienza di qualcosa (anche se esperienza immaginata, anche se edulcorata di deviazioni e possibilità che nella nostra realtà non sono accadute). “Niente trucchi” diceva Ray Carver, quando si trattava di scrivere, e aveva proprio ragione. Questo film, per me, non ha trucchi, nel senso che racconta con profondità le varie vicende e, inoltre, mostra la parte crudele di ciò che può apparire bello, almeno idealmente. Stendhal sosteneva che il romanzo è uno specchio che va in giro per strada. E la gente spesso se la prende con lo specchio che vede passargli di fronte, ma non con ciò che lo specchio, semplicemente, riflette. Ecco, questo film è uno specchio da cui partire, per guardare noi stessi, le nostre contraddizioni. Un primo passo, certo. Lo specchio può fare molto, ma noi dobbiamo fare il resto. In questo senso, mi trovi pienamente d’accordo, quando scrivi che il libro “ti permette di vedere con occhi diversi” le cose, e quindi, mi permetto di aggiungere, noi stessi.
Per questo penso che la letteratura e più in generale le opere artistiche siano, nel loro più ampio respiro contenutistico e stilistico, riflessi e metafore della vita. E che la vita, così come la concepiamo, invece, sia a sua volta metafora della Vita stessa.
Grazie, Stefano, per il tuo bel commento! Uno specchio rende perfettamente l’idea.
“Per scrivere un libro, un minimo bisogna vivere, fare esperienza di qualcosa” quanto è vero! Il guaio di chi scrive senza vivere e che quello che scrive non ha alcuno spessore e manca del tutto familiarità con i contenuti. E, come si dice, non c’è storia!
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