C’è una storia nella letteratura del Novecento che non smette di affascinare editor, scrittori e lettori. È la vicenda di Romain Gary, autore francese che vinse due volte il Prix Goncourt, premio che per statuto può essere assegnato una sola volta nella vita a uno stesso scrittore.
Come fu possibile? La seconda volta lo fece senza farsi riconoscere, nascosto sotto la maschera di Émile Ajar, personaggio fittizio che va ben oltre il semplice pseudonimo, creatura letteraria che prende corpo (e forse occupa anche troppo spazio).
Un’invenzione che è assieme atto letterario, performance artistica, sabotaggio e rivendicazione. Un colpo di scena che ha reso Gary leggenda. E che ci permette anche una riflessione su cosa sia davvero un autore, un nome. Un’identità pubblica.
Il primo Gary: gloria, riconoscimento e critiche
Romain Gary nasce Roman Kacew, in Lituania, e nella sua vita è molte cose: aviatore, eroe di guerra, diplomatico, romanziere, regista, marito di Jean Seberg, autore celebrato. Nel 1956 vince il Goncourt con Le radici del cielo e diventa un nome importante della letteratura francese del dopoguerra.
Ma il suo successo inizia a pesargli: si sente rinchiuso nell’immagine che la critica si è fatta di lui. Si annoia. E forse si sente giudicato più come personaggio che come scrittore.
Il secondo Gary: la reinvenzione narrativa
Così nel 1974 Gary decide di rinascere. Crea Émile Ajar, nome nuovo, un nuovo inizio. Pubblica con quel nome La vita davanti a sé, romanzo narrato dalla voce di un ragazzino arabo cresciuto da un’ex prostituta ebrea. Il libro commuove, incanta e vince il Goncourt nel 1975. Nessuno sospetta.
Ma Gary non si limita a creare uno pseudonimo, gli dona anche un corpo. A interpretare Ajar pubblicamente è infatti il giovane cugino Paul Pavlowitch, che si presta al gioco, partecipa alle interviste, si mostra in pubblico e alimenta il mito.
Gary sorride nell’ombra, è il suo capolavoro performativo ma è soprattutto un nuovo inizio. Non mancano però i timori di essere scoperto, soprattutto dal premio Goncourt.
Una confessione postuma
La finzione forse gli sfugge di mano. Forse più che libero grazie a una nuova identità si sente incastrato in una bugia. Quel che è certo: prima di togliersi la vita, scrive Vita e morte di Émile Ajar sul manoscritto lasciòa questa nota: “La data in cui queste rivelazioni verranno fatte sarà decisa da Robert e Claude Gallimard d’intesa con mio figlio”. Il libro viene pubblicato il 17 luglio del 1981.
È un testo spietato, lucido, in cui confessa tutto. Rivendica la frode, la necessità della menzogna, la fatica di essere sempre e solo sé stesso. Scrive:
Ajar è stato un modo per sfuggire alla vecchiaia, al cliché, al mio stesso nome.
Sono un bastardo, e ne sono fiero.
Ed è anche una rivincita. Non solo perché viene letto senza pregiudizi ma perché i critici che lo accusavano di non saper scrivere in francese non riconoscono nello stile di Ajar quello di Gary. E dire “non sai leggere” a chi ti ha accusato di non sapere scrivere dev’essere stato parecchio gustoso.
Uno pseudonimo come gesto politico
Il caso Gary/Ajar è irripetibile non solo per la sua genialità narrativa e tocca un punto sensibile: la relazione tra autore e testo, tra identità e riconoscimen
Ci ricorda che il “marchio” dell’autore può diventare una gabbia. Perché stabilisce chi è e chi deve essere. Definisce i confini entro i quali gli è consentito muoversi per non rinnegarsi. Mentre il mercato, la critica, i lettori stessi pretendono che si rinnovi rimanendo se stesso. Cambiare nome, dunque, significa poter cambiare ma costringe a rinunciare alla propria identità. E crea comunque una nuova gabbia.
A scavare, sotto l’artista troviamo l’uomo e il figlio. Un rapporto con la madre intensissimo, forse invischiante, una donna che gli chiede di fare tutto, di essere tutto: un letterato, un attore, un eroe… vuole il meglio, lo vive come una rivincita ma gli insegna che essere non basta per essere amati, e non è sufficiente neppure fare. Bisogna essere molti e fare moltissimo.
E oggi?
Nel tempo del self branding, dei social, delle foto profilo, delle biografie curate al millimetro e delle autofiction, usare uno pseudonimo può essere un atto rivoluzionario. Nascondersi quando tutti si mostrano, per raccontare qualcosa di diverso, senza essere etichettati. Limitati. Per tornare alle storie e ai personaggi, e allontanarsi dall’io.
Romain Gary ha fatto della sua identità un’opera d’arte, una performance. Ha giocato con le regole, ha ingannato un’istituzione letteraria, certo, ma ha anche rivendicato la libertà di essere ogni volta un altro.
Uno scrittore, forse, è proprio questo: una persona che sa essere due, dieci, cento. Senza mai mentire davvero.