Grande era onirica – Marta Zura-Puntaroni

Grande era onirica – Marta Zura-Puntaroni

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Marta scandisce la propria vita in ere oniriche che somigliano agli anelli concentrici che marcano la vita di un albero. Solo che queste non lasciano il segno ma cicatrici. Ciascuna era è accomunata da un trucco, una pozione per tenere a bada l’ansia e il dolore e la paura e tutto quello che di storto c’è nel mondo. Martini, Davidoff, Tavor, Fevarin… fino al sedativo successivo, come prescrizione del medico comanda.

Marta è giovane. Intelligente. Di talento. Tutti si aspettavano grandi cose da lei. E non ha scuse per i propri fallimenti. Primogenita destinata al successo che, invece, si lascia trascinare dalla vita senza interesse. “Se qualcosa deve accadere, accadrà. Così capitavo quasi per sbaglio a Siena, quasi per sbaglio davo gli esami, quasi per sbaglio mi laureavo: senza mai mettere un po’ di voglia impegno, interesse in nulla se non nello sfottere chiunque mettesse un po’ di voglia impegno interesse in qualcosa raggiungendo, nonostante tutto, risultati inferiori ai miei”.

Ama uomini sbagliati – uno soprattutto – commette errori, ripete errori… Non vive, sopravvive dilatando il tempo, reiterando il meccanismo errore-sedazione per arrivare al prossimo errore e scoprire che è lo stesso di prima.

Marta va in cura da psicanalisti che sono piuttosto ligi nel fornirle principi attivi (e regalarle così il nome della prossima era) ma di certo non sono capaci di curarla, con la saggezza spicciola e didascalica e le proprie idiosincrasie. Appaiono più turbati loro, più “pazienti” del paziente vero, Marta.

In effetti gli uomini di questa storia paiono “non capire mai” (l’“Altro” il sadico; il padre che con la scusa di “prepararla al meglio, al peggio” l’ha resa inadatta alla vita; la pletora di dottori; persino Marta quando sogna di essere un uomo impotente…), privi di empatia e incapaci di avere pietà. Per questo Marta è così crudele, impietosa (soprattutto con se stessa?).

Se alcune storie conducono il protagonista sull’orlo del baratro, Marta è da quel baratro che ci parla – o forse è un fluido come ci suggerisce l’immagine di copertina – spiazzandoci perché in questa dimensione di dolore e “di sfinimento in genere distante e inquieto” sembra quasi a suo agio. Come se lo smarrimento fosse semplicemente la condizione della sua generazione. Alcuni però sanno stare a galla meglio di altri. Se “non sei abbastanza felice”, invece, è diverso.

“È vero: non credevo di essere depressa. Non credevo di avere comportamenti da depressa. Così è venuto fuori che buona parte delle cose che facevo erano sbagliate.”

Più che un romanzo di formazione è una confessione “disarmata” sulla sopravvivenza alla vita. Dimenticate le nenie ombelicali sulla generazione XYZ che si trascinano di aneddoto (inutile) in aneddoto (inutile), anche se qui i fatti non sono straordinari – non ci sono incidenti scatenanti di rilievo e conflitti colossali né trovate narrative sbalordenti – c’è la scrittura. E la voce dell’autrice ha un timbro che non esige attenzione, la ottiene.

Meravigliose le divagazioni, spiragli che regalano la sensazione che ci sia un mondo da scoprire dentro Marta e oltre alla storia che racconta. Cose che sa, cose che le interessano, cose che sa raccontare in modo interessante. Ed è qui che la vita si insinua nel dolore creando un chiaroscuro che non dà alcun sollievo perché, al contrario, rende più cupo il baratro (la copertina del libro, non a caso, è dominata dal nero).

Un libro perfetto per chi è incapace di seguire alcun consiglio. Stavolta dovrebbe fare una eccezione e leggerlo.

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