Più di duecento racconti proprio non me li aspettavo. Qualcuno (non troppi) fuori tema, o meglio, senza i tre indizi proposti ma la maggior parte di voi è stata al gioco e alla grande. Ho scelto questo racconto perché il protagonista mi ha incuriosita e vorrei tanto sapere che fine farà oltre pagina tre… Il titolo è Una frittella a East Harlem e l’autore è Giuseppe Floris (grazie per aver partecipato!).
Buona lettura!
Giravo per il quartiere alla ricerca di una frittella da gustare in un locale sconosciuto, che avrei scelto scartando tra quelli dove il muro esterno puzzava di piscio e la lavagnetta riportava slogan farlocchi. Avevo camminato tanto che mi parve di essere arrivato alla fine del mondo perdendo di vista non solo la strada ma soprattutto l’obiettivo principale. Mangiare un dolce al sapore di santa pace in un posto dove persino Dio si sarebbe rifiutato di spezzare il pane – tra l’altro – con un povero diavolo come me. Il pensiero mi fece stare incredibilmente bene. Avrei consumato una frittella libero da tutti. Dio compreso.
Quando sollevai la testa verso il cielo, dopo aver chiesto perdono all’Altissimo per averlo nominato invano, m’imbattei in una sfilza di negozi di parrucche, di tutti i colori, appese con dei ganci improvvisati dietro vetrine sporche di polvere e pidocchi. Pensai di comprarne una per travestirmi agli occhi di Dio (e levargli il peso di dovermi perdonare) ma poi decisi che sarebbe stato divertente impressionare la folla. Il fatto che non ci fosse nessuno in strada mi parve l’ennesimo segno, come la faccia di gesso di una vecchia Madonna di colore che mi scrutava senza sanguinare da dietro una finestra socchiusa, dalla quale proveniva puzza di stufato e di sogni andati a male. Spossato, mi guardai intorno alla ricerca del bar nel quale sostare a riflettere su quanto fosse difficile mangiare senza sensi di colpa.
Mi misi di nuovo in marcia, stavolta con le mani bene in vista, cosicché lassù capisse che non cercavo rogne e venivo in pace. Fu così che mi convinsi a seguire un grosso topo che certamente conosceva la retta via. Dopo tre blocchi, svoltato l’angolo a sinistra, mi parve di essere giunto a Bombay. Non che fossi mai stato a Bombay ma qualche anno prima lessi un centinaio di pagine di Shantaram, il numero giusto per riconoscere nel casino che avevo davanti, qualcosa di simile alla città tanto cara al protagonista. Camminare mi piaceva. Ero convinto che andare a zonzo mi aiutasse a capire meglio il flusso del mondo, anche se non m’importava nulla del 99 per cento delle persone che incrociavo per la strada. D’altronde, ero convinto che fosse un sentimento reciproco. Io e il topo proseguimmo per altri dieci blocchi, almeno fino a quando il profumo del cumino e le sopracciglia ad ali di gabbiano delle donne sparirono e fummo pervasi dal profumo delle empanadillas, cotte su piastre bruciate, da donnone sudate che trasportavano per la strada buste della spesa pesanti come il loro culo nero. Quattro tipi dalla faccia color marrone come rhum invecchiato giocavano a domino seduti davanti a un portone. Appena videro il ratto gli indicarono con un gesto dove andare. Probabilmente non ispiravo fiducia neppure ai giocatori di domino. La nutria si fermò davanti a un locale che non aveva la lavagnetta all’ingresso e non puzzava di piscio. Dalla porta-finestra socchiusa veniva fuori un buon profumo a me ignoto, pertanto entrai convinto e felice di poter finalmente fare colazione. Feci un paio di passi e mi fermai in silenzio. Nessuno mi accolse con un bel sorriso ma questo accadeva dal ’78. Mia madre, in preda alle contrazioni del parto, urlava a gambe aperte sul letto di un ospedale. L’infermiera le suggeriva di spingere. Io non mi feci attendere. Saltai fuori dal suo grembo affacciandomi velocemente al mondo perché già da allora speravo che mamma non soffrisse per colpa mia. Non si poteva dire che fossi un bel bambino. La maggior parte delle persone mente ai piccoli addirittura sin dal loro primo giorno di vita. “Che bel bambino!” esclamano con voci in falsetto e la faccia schiacciata sul vetro. Invece gli ospedali brulicano di neonati, che sono mostri nella stessa misura in cui le corsie sono calcate quotidianamente da centinaia di pantofole bianche obbligate a sopportare i chili di troppo di trasbordanti infermiere, così brutte da incrementare la mortalità della popolazione degente. Avevo solo qualche secondo di vita – atarassico fin dall’inizio – quando quell’infame mi diede uno sculaccione senza che nessuno le chiedesse di farlo.
Fermo all’ingresso mi misi a osservare il locale. Era poco illuminato. Un vecchio jukebox diffondeva nell’ambiente la salsa e le pareti erano addobbate con due bandiere ingiallite di Porto Rico. Davanti, dall’altro lato rispetto alla porta d’ingresso, c’era un bancone di legno scuro, dietro il quale poco più in alto erano adagiate su alcune mensole gonfie di noia decine di bottiglie di liquore, intervallate di tanto in tanto da piccole statuette raffiguranti Santi, Gesù e Madonne che mi scrutavano con sospetto. La sala prevedeva una quindicina di tavoli, uno diverso dall’altro. Su molti di questi c’erano graffi e delle frasi incise che nemmeno la vernice ripassata più volte era riuscita a cancellare. M’inchinai leggermente a sinistra, abbassandomi per leggere cosa ci fosse scritto sul tavolo al mio fianco, tua sorella è di bocca buona. La questione non mi toccò. In fin dei conti non avevo sorelle.
In fondo, vicino all’ultima finestra, il tavolo era occupato dall’unico avventore presente in sala. Mi fissava già da qualche minuto così come si fissa un alieno dentro a un fast food o un pinguino zompettare a Coney Island e rideva. Rideva a bocca aperta, quasi senza denti, con gli unici due rimasti gialli e appuntiti. Era smilzo, indossava un cappello logoro, beveva rhum e ripeteva in continuazione, dondolandosi sulla sedia, una cantilena che finiva in “Madre de Dios”. Rideva a crepapelle. Una risata polmonare, di bronchi e di migliaia di sigari rollati a mano fumati fino all’ultima boccata, pregando ogni volta la Vergine che non fosse l’ultima.
Finalmente sentii alcuni rumori di stoviglie provenire dal retro. Probabilmente qualcuno si accorse della mia presenza. Intanto presi posto di fronte all’altra finestra non lontano dall’ingresso, pronto a scappare se il vecchio avesse avuto la divertente idea di lanciarmi il coltello dietro la schiena. Lo stomaco mi ricordò il motivo per il quale ero arrivato fino al “San Juan”. Avevo fame. Desideravo le mie frittelle calde e una tazza di caffè nero. Le persone non frequentano più i bar come una volta, riflettei. Non escono mai da sole e se lo fanno, proprio sull’uscio del locale, contano i soldi convincendosi che avrebbero fatto meglio a conservarli e non entrano più. Se sono sole si sentono a disagio. Preferiscono sprecare il loro tempo seduti al tavolo con persone che odiano, condendole con i racconti dei propri successi professionali e amorosi oppure – ancora peggio – rovesciandole addosso tutti i loro problemi, con le bollette, i vicini di casa o il cane che caga sciolta da tre giorni. Io invece preferisco stare per conto mio, in solitudine la maggior parte delle volte. Diffido di chi beve esclusivamente acqua perché “l’acqua si dà alle piante” diceva mia nonna e da chi non coltiva il suo vizio peggiore come qualcosa d’irrinunciabile per la propria sopravvivenza quotidiana. Mi convinsi che il tizio dietro di me fosse dello stesso avviso. “Dovrei pagargli da bere” pensai. Poi finalmente dal retro uscì una cameriera. Grassa come un burrito, con l’andatura ruspante come quella di un pollo, fasciata in un grembiule bianco con stampato in rosso “San Juan. Nuova Gestione.” Mi si avvicinò lentamente porgendo il menù. Dopodiché rientrò in cucina. Non proferì parola. Lanciai un’occhiata al vecchio che continuava a ripetere la sua litania e a ridermi alle spalle. Concentrato sul menù puntai dritto verso i dolci. Le due pagine plastificate erano colorate e organizzate in ordine alfabetico. La varietà dei cibi mi parve cosa buona e giusta. Cucina spagnola e soprattutto parecchie ricette della casa. Trovai le frittelle dolci e fui attratto anche dalla torta di San Juan. Lo stomaco brontolava già da due ore, avrei consumato tutto velocemente e sarei andato via senza perdere altro tempo.
La cameriera tornò serena come prima ma con un blocchetto di carta in mano. Mi fissò dritto negli occhi senza parlare. Capii che aspettava l’ordinazione. Le indicai con l’indice cosa avevo scelto. Chiesi inoltre una tazza grande di caffè nero.
“Ho trovato questo posto per caso” le dissi. Ci fu un attimo d’imbarazzo.
La cameriera raccolse il menù dal tavolo. Mi fissò ancora una volta in silenzio ma stavolta sorrise dolcemente. Aspettai il cibo osservando cosa proponeva la vita alla finestra. Il neon dell’insegna emetteva un ronzio che si percepiva anche all’interno e sembrava quasi andare a tempo con la luce rossa e blu a intermittenza. Una bambina si affacciò e rimase a fissarmi come se fossi il santo del quartiere. Dopo un minuto mi fece il segno della vittoria e scappò via. Dall’altra parte del marciapiede un tizio smilzo puliva la cunetta con il getto d’acqua di una pompa. Il cassonetto era colmo di rifiuti e scorsi il mio amico ratto che aveva già cominciato il pranzo tra le buste lerce.
Passarono circa quindici minuti. Non avevo nulla da leggere e non conoscevo le preghiere a memoria per far compagnia ai Santi sulle mensole. Li osservai però con attenzione. Uno era senza testa, un altro senza l’occhio. Un altro ancora trafitto nel costato, aveva lo sguardo perso verso l’infinito. I Santi avevano avuto vite più movimentate delle mie.
Arrivò la cameriera con un vassoio sul quale facevano bella mostra le frittelle, la torta e il caffè fumante. Addentai prima la torta, era eccezionale, squisita. Ancora calda ma friabile, ricoperta di panna con un retrogusto particolare che non sapevo riconoscere ma assolutamente delizioso. Afferrai anche una frittella, la spezzai in due e m’inebriai col profumo che emanava. Era dolce e morbida. Probabilmente aromatizzata alla cannella. Tiepida al punto giusto si scioglieva in bocca. Persino il caffè era diverso, pareva velluto, dello stesso colore del viso della donna che per un istante notai intenta ad osservarmi sorridente mentre con uno strofinaccio lucidava il bancone.
Ero felice. Quei dolci erano talmente buoni che mi tranquillizzarono. Mi sentivo a casa. Un grande appartamento abitato anche da portoricani che giocavano a domino e da quegli indiani color curcuma che avevo incrociato due ore prima. Finii soddisfatto lo spuntino e con un gesto della mano attirai l’attenzione della cameriera. Si era fatto tardi e dovevo riprendere il treno per Brooklyn.
“Era tutto buonissimo, signora. Credo di non aver mai mangiato dei dolci così.”
La cameriera ritirando il piatto prese la sedia e si sedette vicino a me e felice esclamò. “Sai, ragazzo, qual è l’ingrediente speciale?”
Aspettai che finisse la frase.
“L’amore.”
Abbassai lo sguardo imbarazzato.
“Ho aperto da pochi giorni. Sarei felice di rivederti. Magari la prossima volta porta pure un’amica.” La donna si alzò sfiorandomi la mano. Raccolse i soldi dal tavolo e sparì dietro il bancone.
New York – pensai con le lacrime agli occhi – non avrebbe potuto accogliermi meglio.
77 comments
molto bello. Anch’io amo le nutrie, l’Arno ne ospita una popolosa comunità e spesso dimostrano di avere più capacità empatiche dei fiorentini 😉
Mi è piaciuto abbastanza, a metà mi sono un po’ persa; il finale mi ha sorpresa, melo aspettavo diverso. E’ scritto bene, lo stile mi ha intrigato. Alcuni dettagli li ho trovati interessanti. complimenti a Giuseppe.
Come lo capisco, dopo tutto questo tempo a verdura, mi commuovo sempre quando mi trovo davanti un dolce…
Scritto davvero bene. Ma mi aspettavo che conducesse da qualche altra parte. Con tutti quei riferimenti a dio e ai santi… Se ci fosse stato un colpo di scena meno “dolce” e più blasfemo avrei fatto la ola.
Noi che se vedessimo una fatina le sciancicheremo (noto termine tecnico molto usato tra i RedCap) le ali…
Ciao Chiara, grazie!
Che onore. Non me lo aspettavo e sono felicissimo di vedere il mio racconto su un sito così importante di una editor così professionale, carismatica e preparata come te. Non vedo l’ora di leggere gli altri due racconti. Scrivo da sempre e invito tutti a visitare il mio sito picchu.it e a seguirmi su Twitter @7picchu
Che bello sono entusiasta che ti sia piaciuto.
Ora lo rileggo pubblicato qua. Sono belle soddisfazioni.
Un caro abbraccio a te (alla piccola…) e a tutti i partecipanti.
Giuseppe
Molto bello, complimenti Giuseppe! E a quest’ora come mi berrei un caffè di velluto con una frittella anch’io.
Certo che se inverto MAIL e NOME faccio proprio una gran figura! Ho sempre + bisogno di quel caffè…
Mi hai fatto venir voglia di camminare per quelle strade,di assaggiare quella torta e le frittelle e la nutria altro non è che quel dio a cui chiedi perdono e che invece ti guida e ti conduce alle porte dell’amore…. Scritto in modo sublime,scivola via e mi vien da chiederti : ancora…voglio altri tuoi racconti!
Lo stile ed il tipo di racconto mi ha ricordato Firmino di Sam Savage. Intrigante.
Non per fare il Pierino della situazione, né per voler offendere, però credo che questo racconto – lungi dall’essere ben scritto – abbia quanto meno bisogno di una robusta passata di editing che ne elimini un bel po’ di spigolosità.
Nel merito lo trovo prolisso e poco coinvolgente, la storia poteva essere sviluppata meglio; la frase finale della cameriera, inoltre, sembra buttata lì giusto per inserire uno degli elementi fondamentali del concorso (per non dire che costituisce una chiusura oltremodo banale).
Oh, idea mia eh, da povero vecchio cialtrone.
Non per fare il Pierino della situazione, né per voler offendere nessuno, però credo che questo racconto – lungi dall’essere ben scritto – abbia quanto meno bisogno di una robusta passata di editing che ne elimini un bel po’ di spigolosità.
Nel merito lo trovo prolisso e poco coinvolgente, la storia poteva essere sviluppata meglio; la frase finale della cameriera, inoltre, sembra buttata lì giusto per inserire uno degli elementi fondamentali del concorso (per non dire che è una chiusura oltremodo banale).
Oh, idea mia eh, da povero vecchio cialtrone.
Stranoforte,
nessun Pierino, fai benissimo a dire la tua. E se non ti è piaciuto non avrebbe alcun senso dire il contrario.
Ricorda però che è un torneo tra aspiranti scrittori, non tra autori di fama e che i testi – al contrario dei libri che trovi pubblicati – non hanno subito alcuna revisione.
Ciao!
Molto bello…ben scritto, Ricco di spiccata ironia e fa trasparire una grande personalità dell’autore. È sorta in me la voglia di leggere ancora qualcosa scritto da Giuseppe!
E poi lo sfondo di New york… Fantastico…l’ha fatta amare ancora di più a chi come me, non ha ancora avuto il piacere di visitarla!!
E adesso vado alla ricerca di una frittella!
Grazie Giuseppe!
Grazie a tutti.
Giuseppe
Complimenti! Ben scritto, divertente, equilibrato, ironico. Se questo è il terzo classificato, aspetto con curiosità gli altri due.
Grazie!
Bravo Giuseppe,
mi è piaciuto molto. Si respira l’aria di quelle strade che descrivi, e caratterizzi molto bene i personaggi. Oltre tutto, NY l’ho visitata da poco per la prima volta ed è magnifica, ed ho amato molto Shantaram, perciò “che te lo dico affà!” ;-).
L’anno scorso poi al 3° posto c’ero io, ma tu sei stato più bravo perchè quest’anno i racconti sono molti di più.
Ancora complimenti
Tomas
Che gentile, grazie. Leggerò il tuo racconto e non si tratta di chi è più bravo. Siamo tutti uniti dalla stessa passione. Per me poi, tra le mie passioni più grandi appunto, c’è proprio NYC dove vado da anni e dove vorrei restare. Grazie mille 🙂
È vero che i pareri vanno motivati. Lo dico da lettore, lungi da me l’idea di sollevare polemiche, anche perché io stesso ho inviato un mio raccontino, ma ci sono ei periodi che, sinceramente, non capisco.
Oppure sono io completamente fuori strada?
Quali sono i periodi? Eccoli:
“Giravo per il quartiere alla ricerca di una frittella da gustare in un locale sconosciuto, che avrei scelto scartando tra quelli dove il muro esterno puzzava di piscio e la lavagnetta riportava slogan farlocchi.”
– scartando?
“Avevo camminato tanto che mi parve di essere arrivato alla fine del mondo perdendo di vista non solo la strada ma soprattutto l’obiettivo principale.”
– Consecutio assente.
“Quando sollevai la testa verso il cielo, dopo aver chiesto perdono all’Altissimo per averlo nominato invano, m’imbattei in una sfilza di negozi di parrucche, di tutti i colori, appese con dei ganci improvvisati dietro vetrine sporche di polvere e pidocchi.”
– Ma quindi quei negozi erano in cielo?
“Spossato, mi guardai intorno alla ricerca del bar nel quale sostare a riflettere su quanto fosse difficile mangiare senza sensi di colpa.
– Cioè? Mangiare senza sensi di colpa?Che attinenza ha?
“… cotte su piastre bruciate, da donnone sudate che trasportavano per la strada buste della spesa pesanti come il loro culo nero.”
– Cioè, cucinavano e contemporaneamente andavano in giro con le buste della spesa?
“Appena videro il ratto gli indicarono con un gesto dove andare.”
– Un topo ammaestrato.
“La nutria si fermò davanti a un locale che non aveva la lavagnetta all’ingresso e non puzzava di piscio.”
– Nutria? Ma non era un topo?
“Nessuno mi accolse con un bel sorriso ma questo accadeva dal ’78. Mia madre, in preda alle contrazioni del parto, urlava a gambe aperte sul letto di un ospedale. L’infermiera le suggeriva di spingere. Io non mi feci attendere. Saltai fuori dal suo grembo affacciandomi velocemente al mondo perché già da allora speravo che mamma non soffrisse per colpa mia.”
– Cosa significa questo accostamento?
“Avevo solo qualche secondo di vita – atarassico fin dall’inizio – quando quell’infame mi diede uno sculaccione senza che nessuno le chiedesse di farlo.”
– Atarassico?
”M’inchinai leggermente a sinistra, abbassandomi per leggere cosa ci fosse scritto sul tavolo al mio fianco, tua sorella è di bocca buona. La questione non mi toccò. In fin dei conti non avevo sorelle.”
– Quindi, se ne avesse avute?
”Una risata polmonare, di bronchi e di migliaia di sigari rollati a mano fumati fino all’ultima boccata, pregando ogni volta la Vergine che non fosse l’ultima.”
– Che accostamento infelice.
”Le persone non frequentano più i bar come una volta, riflettei.”
– E non ci sono più nemmeno le mezze stagioni
“Diffido di chi beve esclusivamente acqua perché “l’acqua si dà alle piante” diceva mia nonna e da chi non coltiva il suo vizio peggiore come qualcosa d’irrinunciabile per la propria sopravvivenza quotidiana.”
– Cosa c’entra nel racconto?
Grassa come un burrito, con l’andatura ruspante come quella di un pollo, fasciata in un grembiule bianco con stampato in rosso “San Juan. Nuova Gestione.”
– Burrito??
“La cameriera tornò serena come prima ma con un blocchetto di carta in mano. Mi fissò dritto negli occhi senza parlare. Capii che aspettava l’ordinazione.”
– Caspita che intuizione!
Il neon dell’insegna emetteva un ronzio che si percepiva anche all’interno e sembrava quasi andare a tempo con la luce rossa e blu a intermittenza.
– Solitamente un neon emette i ronzii proprio in concomitanza del suo lampeggiare, anche quando è rotto.
I Santi avevano avuto vite più movimentate delle mie.
– Caspita! (Ma forse si riferisce alle statuette)
Quei dolci erano talmente buoni che mi tranquillizzarono.
– Tranquillizzarono? No, ma quindi era agitato? Non era “atarassico”?
Abbassai lo sguardo imbarazzato.
– Be’, certo, una frase così profonda, detta al protagonista in un ambiente come quello appena descritto, è davvero imbarazzante.
Ciao, che mestiere fai? Insegnante di italiano antico con annessa matita rossa e matita blu?
È vero che i pareri vanno motivati. Lo dico da lettore, lungi da me l’idea di sollevare polemiche, anche perché io stesso ho inviato un mio raccontino, ma ci sono ei periodi che, sinceramente, non capisco.
Oppure sono io completamente fuori strada?
Quali sono i periodi? Eccoli:
“Giravo per il quartiere alla ricerca di una frittella da gustare in un locale sconosciuto, che avrei scelto scartando tra quelli dove il muro esterno puzzava di piscio e la lavagnetta riportava slogan farlocchi.”
– scartando?
“Avevo camminato tanto che mi parve di essere arrivato alla fine del mondo perdendo di vista non solo la strada ma soprattutto l’obiettivo principale.”
– Consecutio assente.
“Quando sollevai la testa verso il cielo, dopo aver chiesto perdono all’Altissimo per averlo nominato invano, m’imbattei in una sfilza di negozi di parrucche, di tutti i colori, appese con dei ganci improvvisati dietro vetrine sporche di polvere e pidocchi.”
– Ma quindi quei negozi erano in cielo?
“Spossato, mi guardai intorno alla ricerca del bar nel quale sostare a riflettere su quanto fosse difficile mangiare senza sensi di colpa.
– Cioè? Mangiare senza sensi di colpa?Che attinenza ha?
“… cotte su piastre bruciate, da donnone sudate che trasportavano per la strada buste della spesa pesanti come il loro culo nero.”
– Cioè, cucinavano e contemporaneamente andavano in giro con le buste della spesa?
“Appena videro il ratto gli indicarono con un gesto dove andare.”
– Un topo ammaestrato.
“La nutria si fermò davanti a un locale che non aveva la lavagnetta all’ingresso e non puzzava di piscio.”
– Nutria? Ma non era un topo?
“Nessuno mi accolse con un bel sorriso ma questo accadeva dal ’78. Mia madre, in preda alle contrazioni del parto, urlava a gambe aperte sul letto di un ospedale. L’infermiera le suggeriva di spingere. Io non mi feci attendere. Saltai fuori dal suo grembo affacciandomi velocemente al mondo perché già da allora speravo che mamma non soffrisse per colpa mia.”
– Cosa significa questo accostamento?
“Avevo solo qualche secondo di vita – atarassico fin dall’inizio – quando quell’infame mi diede uno sculaccione senza che nessuno le chiedesse di farlo.”
– Atarassico?
”M’inchinai leggermente a sinistra, abbassandomi per leggere cosa ci fosse scritto sul tavolo al mio fianco, tua sorella è di bocca buona. La questione non mi toccò. In fin dei conti non avevo sorelle.”
– Quindi, se ne avesse avute?
”Una risata polmonare, di bronchi e di migliaia di sigari rollati a mano fumati fino all’ultima boccata, pregando ogni volta la Vergine che non fosse l’ultima.”
– Che accostamento infelice.
”Le persone non frequentano più i bar come una volta, riflettei.”
– E non ci sono più nemmeno le mezze stagioni
“Diffido di chi beve esclusivamente acqua perché “l’acqua si dà alle piante” diceva mia nonna e da chi non coltiva il suo vizio peggiore come qualcosa d’irrinunciabile per la propria sopravvivenza quotidiana.”
– Cosa c’entra nel racconto?
Grassa come un burrito, con l’andatura ruspante come quella di un pollo, fasciata in un grembiule bianco con stampato in rosso “San Juan. Nuova Gestione.”
– Burrito??
“La cameriera tornò serena come prima ma con un blocchetto di carta in mano. Mi fissò dritto negli occhi senza parlare. Capii che aspettava l’ordinazione.”
– Caspita che intuizione!
Il neon dell’insegna emetteva un ronzio che si percepiva anche all’interno e sembrava quasi andare a tempo con la luce rossa e blu a intermittenza.
– Solitamente un neon emette i ronzii proprio in concomitanza del suo lampeggiare, anche quando è rotto.
I Santi avevano avuto vite più movimentate delle mie.
– Caspita! (Ma forse si riferisce alle statuette)
Quei dolci erano talmente buoni che mi tranquillizzarono.
– Tranquillizzarono? No, ma quindi era agitato? Non era “atarassico”?
Abbassai lo sguardo imbarazzato.
– Be’, certo, una frase così profonda, detta al protagonista in un ambiente come quello appena descritto, è davvero imbarazzante.
Mario Borghi E stranoforte, tenuto conto che un invio non bastava ma ne servivano due nel caso in cui non avessimo capito gli acuti ragionamenti. Il giochino che lei sta facendo non è l’editing che reclamava a gran voce in un precedente messaggio, ma un’attività di distruzione che può essere applicata a qualunque testo. Le sue osservazioni dimostrano che lei ha sicuramente subito un’amputazione di quella parte del cervello dove stanno nascoste ironia, estro, fantasia, giocosità, ecc. Peccato, non sa quello che si perde.
Gentile Catherine, anzitutto mi scuso per la duplicazione del post, ma non è stato per colpa mia, lo giuro, bensì di un malfunzionamento del server, voglia perdonarmi.
Per il resto, credo che Lei vada ignorata.
Visto che parla di cose di cui sconosce la funzione.
Penosa risposta. Aspettavo di meglio visto l’acume dimostrato in precedenza.
Diciamo che è all’altezza dell’interlocutrice.
Non per sollevare inutili polemiche,ma dove e’ finito il piacere di leggere un ottimo racconto,scritto bene,divertente e fuori dall’ordinario ? Il tutto cede il posto ad un’analisi dettagliata del testo ? Relax… Life Is too short per fare i Rottermeier della situazione… E come ha ricordato Chiara,e’ un concorso per scrittori emergenti con tutto ciò che questo ne deriva….. Se posso permettermi consiglio di leggere “Come un romanzo ” di Pennac,dove egli stesso scrive di assaporare le storie quando leggi un libro o un racconto,sollecita a immedesimarci in ciò che leggiamo…e a mio parere( ma leggo gli altri commenti e non sono sola) Giuseppe e’ riuscito a portarmi nelle strade di NYC, a portarmi dentro la storia…col topo( ammaestrato) o nutria che sia….con i santi ,dei quali vedi le statue solamente,ma sai quanto hanno vissuto( e se si conoscono le loro storie si sa quanto movimentate siano state) …. Detto questo,se mettessimo un po’ di quell’amore ,che la tizia usa per fare le frittelle,in ogni nostra azione e meno analisi grammaticali e di struttura dei testi anche le giornate sarebbero meno noiose….. Have a nice day
Se vogliamo volerci tutti bene possiamo benissimo ammettere che, wow, ok!, questo stupendo racconto è ben scritto, commovente, suggestivo e alla fine è vero che l’amore vince sempre, perché nell’amore stanno le cose semplici, quelle di una volta, e chi se ne importa di tutto il resto, visto che alla fine della lettura mi sembrava di essere proprio nella bellissima New York!
Se invece lo vogliamo esaminare con un pochino più di attenzione, e oltretutto è selezionato tra moltissimi da un’agente letterario molto quotato, dobbiamo chiederci quanto meno se esso risponda ai requisiti minimi per essere considerato passabile. E per me la risposta è: NO. E nemmeno dopo un editing. È un insieme di tante cose, di frasi slegate che di fatto non portano a nulla, tantomeno all’aria di NY.
Queesto è un contest per aspiranti scrittori – scrittori emergenti, concordo, ma ciò non autorizza a maltrattare le lettere.
Sottoscrivo le fin troppo benevole affermazioni di Mario C. / Stranoforte e agggiungo che chi, in qualsiasi discussione, ricorre ad attacchi personali, ancorché nei riguardi di uno sconosciuto, è palesemente a corto di idee sensate, in caso contrario si sforzerebbe di controbattere con argomentazioni plausibii.
Poi, sì, prima era un topo poi, ma così per ridere, è diventato uno gnu ammaestrato che vaga in un quartiere in cui tutti gli vogliono bene (fa riderissimo); quei Santi in effetti hanno avuto una vita pazzesca, tanto che neppure da statue riposano in pace; le vetrine delle parrucche a NY sono in cielo e la gente, signora mia, non va più al bar come una volta. Mi sto cuommuovuenduo.
Ciao STRANOFORTE , che mestiere fai? Insegnante di italiano antico con annessa matita rossa e matita blu?
Torno. Il racconto ripeto mi è paciuto. Forse l’ho trovato un filinino fuori tema. Ma non lo penalizza. Quello che però mi fa dispiacere è vedere che, da ambo le fazioni, per un concorso di questo tipo, importante certo, ma che non dà chissà quale celebrità, si tiri fuori un livore a mio avviso eccessivo. Attacchi che rasentano l’insulto. Ma perchè?
Anch’io difendo sempre con passione le mie opinioni, ma, non con questi toni . Vedo questo atteggiamento dilagante nei blog negli ultimi tempi. Come se commentare aprisse una diga di rancore sopito. E’ un po’ triste. O magari si rosica per un mancato piazzamento. Anch’io ho partecipato e non credo proprio che mi vedrò al primo o secondo posto, pazienza, considero che esiste anche una parte di gusto personale (di Chiara) che avrà avuto il suo peso. Qualsiasi testo può essere distrutto o mitizzato, la letteratura ne è piena. Baci
Ciao. Non volevo aggiungere ulteriori commenti perché è come se mi stessi parlando addosso. Volevo però ringraziare ancora per aver letto il racconto, anche quelli che lo trovano orribile. Non possiamo piacere a tutti ed è bello che sia così. Esistono infiniti stili di scrittura. Uno dei miei miti letterari scriveva senza la punteggiatura… Ci tenevo ad aggiungere due cose. Uno. Io non mi sostituisco a chi fa questo per lavoro, a chi come Chiara vive di letteratura. Per questo sono orgoglioso del piazzamento su Blookbister e per ciò che mi ha scritto. Secondo. Mi “dispiace” ma esclusivamente per gusti personali, che non si sia colto in uno dei passaggi più criticati, la citazione ad un mostro sacro della letteratura. Non si può leggere tutto lo capisco. Però. Grazie ancora. Aspetto con piacere gli altri racconti. Giuseppe.
Ciao Picchu! Sarà il buon caro Bukowski???
“D’accordo, sono un figlio del demonio; l’intera umanità mi annoia e no, non è paura, sebbene qualcosa in loro mi spaventi, e non è invidia perché non voglio nulla di ciò che loro vogliono, è solo che in tutte quelle ore di parole parole parole non sento niente di davvero buono coraggioso o nobile, e che valga un briciolo del tempo in cui mi hanno impallinato le cervella” 🙂
Bravo…
Uffa. Che noia che barba direbbero i gloriosi Sandra e Raimondo.
Tramando è un gioco. Un torneo a cui partecipano persone che dovrebbero amare le storie e i racconti. Non è il premio Strega! E io – non so chi l’ha scritto ma non sono un agente letterario, sono un editor e sul quotato: “Ai posteri l’ardua sentenza” – ho selezionato a mio insindacabile giudizio – adoro la dicitura – il terzo classificato tra i duecento e rotti racconti ricevuti. Cioè non tra il pianeta mondo degli aspiranti scrittori.
Perché l’ho scelto? Perché ha personalità, perché con i suoi difetti qualcosa del personaggio e del racconto ti rimane. Perché il passo narrativo non è didascalico, burocratico, patetico, asettico, anonimo…
Le critiche negative sono un piacevole momento di confronto. Il livore è una occasione perduta. Perciò fate i bravi – che nella vita ci sono rogne molto peggiori – torniamo ai bei toni di BookBlister.
E, tra poco, parlerò di un concorso davvero speciale che c’entra pure con la discussione in corso…
Mi sto chiedendo se qualcuno sta incrociando le dita per non vincere, chiedendosi se una cassa di libri vale un massacro.
Catherine, guarda che il massacro lo hai iniziato tu con le tue infauste battute.
Per aggiungere qualcosa di stimolante alla conversazione: apprezzo molto Mario Borghi perché ha partecipato al concorso per il racconto più brutto (date un occhio al mio ultimo post) vincendolo (cosa che ho scoperto solo a fine post, andando a leggere i racconti vincitori delle precedenti edizioni). Il che significa che, oltre al senso critico, ha pure una ottima dose di autocritica. Bene così!
Roberto, sto sognando?
Beh… tra i commenti fin troppo rispettosi e politicamente corretti ai racconti dell’anno scorso e le polemiche di quest’anno, forse preferisco il presente che è assai coerente con il momento storico che stiamo vivendo . Non credo che sia un caso.
A me piace leggere il parere dei lettori! Altrimenti perché pubblicare i racconti qui? Mi piace anche l’atmosfera “elettrica” la trovo stimolante. Mi spiace solo buttarla in rissa, ché alla fine si dice poco di interessante. Ma sono certa che avrete da dire molte molte cose interessanti, Aldo.
(Intanto, per precauzione, indosso il giubbotto antiproiettile!)
Il racconto è bellissimo. Pieno di citazioni, frizzante, sembra scritto camminando per la strada. Mi piace tutto, è originale e fuori dagli schemi. Incalzante. un po’ cinico, un po’ mistico e anche d’amore. Complimenti, non capita spesso di leggere racconti diversi, scritti fuori dai soliti modi.
Il racconto più brutto è un concorso stupendo, la serata della premiazione è una delle cose più surreali del mondo: gente che si accapiglia e si giura le più orribili vendette pur di vincere.
I racconti sono quanto di più inutile e vanaglorioso possa trovarsi in giro per le lettere.
E io, modestamente, cari miei, che si sappia, lo vinsi.
Quanto al resto, pfui a chi non mi dà ragione.
Anzi, qui c’è il mio blog http://www.stranoforte.weebly.com
Aldo Costa, quindi l’anno scorso erano tutti dei falsi? O erano, anche allora, in linea con i tempi?
L’anno scorso chissà quante cose non ti sarebbero piaciute. Ma il gruppo era piccino, l’atmosfera quella delle prime volte e quindi, vuoi la timidezza e un certo pudore, non ci sono state sassaiole. Ma è stato un gran bel gioco serio pure quello.
E fai il bravo, Mario, perché io lo sono stata altrettanto. MI raccomando.
Io sono bravissimo, ci mancherebbe, però quando si inizia a buttare la cosa in politica mi annoio, è troppo banale.
Poi l’ho già detto io sono un cialtrone.
P.S.: mi sa che c’è un mio post bloccato nelle gabbie dello spam.
Il post è sbloccato. Pardon, ma non so perché accada, sei il primo a cui succede! Neppure quando mi accoltello con Eap e furbetti che si inventano concorsi spilla euro succede.
(Ho visto che l’anno scorso ha vinto un racconto hard. Ecco vedi, già la cosa non mi sarebbe piaciuta, ché con il porno e tutte le sue sfumature non si sbaglia mai, va bene su tutto, fa fine e non impegna, come parlare del tempo. E allora perché non un bel racconto sul tempo?)
Racconto hard? Se quello è un racconto hard dobbiamo davvero fare un bel post sui generi letterari. Una bella cosa prolissa da editor cialtrone 😉
Sai che non so più di cosa stiamo parlando, Mario.
Parliamo di qualcosa che ti è piaciuto. Un autore, una inserzione, un numero di telefono. Qualcosa su!
(non del povero terzo classificato, no, di autori che ti piacciono, così aggiungiamo ciccia alle rimostranze)
Il sonno e la vanagloria mi hanno fatto dimenticare una parte dei commento, volevo scrivere “con inserto hard”.
Ah, inserto, occhei. Peccato, ci tenevo alla lezione pallosa sui generi 😉
Però, dài, Mario, vuoi eliminare tutte le scene di sesso dalle storie perché c’è stata quella tassa delle Cinquanta sfumature?!
Comunque, ripeto, non so più di cosa stiamo parlando.
Dai parliamo della “parola”, del suo significato, della sua funzione, della sua efficacia.
Argomento interessante…
Credo che dei tre aspetti solo la funzione possa essere inquadrata in modo oggettivo, il significato e l’efficacia sono caratteristiche proprie di chi interpreta la parola, più che della parola stessa.
Il fascino della parola e come il fascino di un singolo gene di un DNA: riesce a dare al racconto quel tocco di raffinatezza che esula da ogni altro valore. La parola va soppesata, non bruciata, neppure svenduta. E’ un trait-d’union che unisce il lettore con lo scrittore, anzi è un catalizzatore. Non amo le citazioni però non posso ignorare Voltaire con il suo “le parole sono per i pensieri quel che è l’oro per i diamanti: necessario per metterli in opera, ma ce ne vuol poco”.
O che dire ad esempio del libro da cui è stato tratto il film Arancia Meccanica?
Una parola, ne basta una, per prenderti e sbatterti a migliaia di chilometri di distanza.
Quindi il discorso non voleva riguardare la “parola” in senso generale, ma l’uso oculato della parola nella comunicazione scritta.Il campo si restinge parecchio.
Concordo con l’importanza della scelta e la necessità di un uso mirato delle parole, ma continuo ad essere dell’idea che la reale efficacia dipenda dall’interpretazione del lettore più che dalla parola stessa.
Scegliere il registro linguistico, la complessità della costruzione dei periodi ed il ritmo narrativo equivalgono a scegliere anche un diverso bacino d’utenza per quanto si è scritto. Perché la stessa finezza che eleva il cuore di qualcuno può essere una “pallosa parola più antica che vecchia che non ho voglia di cercare sul vocabolario”.
Racconto davvero carino e dove si capisce l’amore dello scrittore per la “sua” NYC.
Bravo, continua così.
Credo proprio che l’autore terzo classificato debba valutare l’idea di approfondire il discorso “parola” e “frase”. Si può dire ciò che si vuole per fare contenta una persona, però a essere onesta questo racconto è tutt’altro che ben scritto e tutt’altro che evocativo (scusate, ma in cosa, in quale passaggio, ricorda NYC, quali sono gli elementi che lo riconducono a NYC se non la precisazione alla fine?).
E dico questo al di là delle enormità evidenziate da chi mi ha preceduta.
Mi chiedo come mai i commenti di elogio si limitano a un laconico “ben scritto”, “davvero carino”. Il paragone con la politica poi mi fa davvero capire lo spirito con cui i commentatori leggono.
Ely, scusa, così come vengono rispettate le critiche negative, vanno rispettate quelle positive, no?
Non ti è piaciuto fai benissimo a dirlo ma trovo che far la critica ai commenti sia inutile.
Ragazzi, questo è un gioco! Serio come lo sono i giochi, ma non dimentichiamoci che dovrebbe essere anche divertente…
Un abbraccio, Ely.
Non credo sia necessario giustificare sempre tutto, soprattutto se non si fa parte della giuria, ma si sta solo commentando una gara piacevole. E se non lo si fa debba partire il pippone sullo scarso spirito nella lettura. Sempre con quell’aria di sentirsi superiori.
Fremo all’idea di leggere il resto del podio. Enjoy!
Trovo il racconto originale e scritto in maniera davvero diversa. Credo ci sia un talento naturale di chi l’ha scritto. Incuriosito ho letto un po’ di post del suo blog e lo trovo geniale. Ha un’importante moderna, cinica e sorprendente negli accostamenti. Utilizza figure retoriche, citazioni e si esprime in maniera diretta senza orpelli pseudo letterari. Mi piace e complimenti.
Non m’interessano i commenti mi fido di Chiara che seguo da tempo e che fa questo di lavoro. Il racconto mi piace moltissimo. Ha un passo particolare e mi piace come apre la scena con dei flash di rara ironia e cinismo. Poi è un racconto che osa e che non scimmiotta nessuno. Oh, secondo me Giuseppe è bravo forte. Chiara non deludi mai.
Ribadendo che non è lo Strega (però, se penso a quello che si dicono tra loro i partecipanti dello Strega, mi vien da ridere) lo spirito di Tramando è “mi piacciono le storie, vi piace scriverne: dài facciamo un piccolo concorso”.
Voi ci mettete il vostro tempo e io il mio.
Ovvio che una giurata “se la canta e se la sona” da sola e che può cadere preda del gusto personale ma è piuttosto difficile giustificare le mie scelte, perché sarebbe necessario che vi leggeste tutti i racconti arrivati. Alcuni con una bella idea ma poco leggibili, altri del tutto fuori tema, altri ancora un po’ didascalici… diversi scritti da penne interessanti che però dimostrano di essere portate più all’addizione che alla sottrazione e che quindi falliscono nel racconto breve.
Io mi emoziono per le storie, per i personaggi che hanno qualcosa da raccontare e che, più che personaggi, sembrano persone. Francamente non impazzisco per le geometrie perfettine ma asettiche. E detesto “la bella scrittura scolastica” quella delle maestre che hanno devastato aspiranti scrittori a suon di temi un tanto al metro. Mi piace stupirmi sempre un po’ ché, alla fine, una storia è per un lettore una occasione per guardare il mondo da un’angolatura differente.
Comunque lunedì arriva il secondo classificato. (Vado a scavarmi la trincea 😉 )
Chiara io credo ancora di più capisco la tua scelta. Il racconto di Giuseppe Floris non è asettico o anonimo. Io credo sia fuori dagli schemi e il suo personaggio viaggia con una personalità intrigante e originale dimostrando spessore e umanità. Bello.
Beh si è capito mi è sfuggito il commento 🙂
Sì, er Bucoschi de noantri.
Originale, evocativo, fluido, divertente. Un personaggio che arriva al cuore
Solo una comunicazione di servizio: i commenti che ricevo sono comprensivi di indirizzo i.p. perciò inutile firmarsi con nomi diversi se si è la stessa persona… 😉
Quello che sto per dire non lo dico per fare polemiche, nè tantomeno per vivisezionare un testo che, come tutti, va visto nella sua unicità e globalità.
Ispirato, arguto, spiritoso se piace un po’ di humor nero… però manca quasi completamente una trama.
Secondo me questo pezzo sarebbe buono come incipit o parte di un romanzo, ma messo così, come racconto a se stante, finisce per significare poco e forse per sembrare un po’ uno specchiarsi nel proprio scrivere… tirando talvolta un po’ troppo la corda…
Questo è il mio modesto parere, io penso che il romanzo e il racconto debbano avere una struttura e dei tempi completamente diversi affiché anche un racconto possa essere almeno in parte autoconclusivo… ma non è detto che debba esserre come la penso io!
Dici una cosa molto giusta. Il racconto è un formato insidioso. Chi lavora bene di sottrazione sa che l’attenzione del lettore uno se la gioca in poche righe. Un incipit che sappia agganciare chi legge, una idea forte, una chiusa a effetto. Queste le regole base.
E infatti l’autore di questo racconto secondo me è più portato per l’addizione. Rimane il fatto che per me possiede un certo non so che rispetto a racconti che cercano di seguire le regole tradizionali ma lasciano molto poco a chi legge.
Un abbraccio!
Che bega. Ho letto alcune critiche e vorrei dire la mia. Penso sia un peccato aprire contese posteriori e sminuire la soddisfazione di Giuseppe, e credo che ci sia una cosa da sottolineare: il racconti prima di tutto devono avere una struttura coesa. Intendo che devono funzionare con un ritmo proprio, questo è quello che conta. Il messaggio che comunicano, lo stile e tutto il resto sono aspetti che passano in secondo piano non perchè sottovalutati ma perchè da uno scrittore (anche se aspirante) la condizione necessaria che gli si richiede è proprio di saper costruire una storia (una situazione che subisce dei cambiamenti). Perdersi in considerazioni magari giuste ma rese pignole e inopportune dal contesto in cui vengono trattate, invece, è tempo perso.
L’ho trovato divertente, forse proprio perché come sottolineato da altri non segue le regole “canoniche” del racconto. O più probabilmente per la scelta di un linguaggio colloquiale (ammetto che il passaggio del roditore che conosce la “retta via” mi ha conquistato. Forse è l’influenza della lettura, benché non recentissima, di Firmino (Sam Savage) )
Grazie ancora a tutti, amici compresi…
Anch’io vorrei analizzare e rispondere pezzo su pezzo a chi trova alcune cose stonate, non lo faccio perchè non mi piace farlo. Non lo trovo giusto e mi annoierebbe a morte. Mi piace ringraziare tutti per averlo letto. Ognuno scrive come meglio crede (tanto poi si sottopone a critica) col suo stile, i suoi riferimenti e le sue idee ed è giusto che ad alcuni arrici qualcosa di bello e ad altri no. Io scrivo così dal ’78 e ho tutto il tempo davanti a me per continuare a dfarlo. Un abbraccio anche alla seconda arrivata.
Giuseppe
Socio è geniale… Semplicemente geniale! Ti stimo troppo fratello mio.
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