Maurice Pinguet – La morte volontaria in Giappone

Maurice Pinguet – La morte volontaria in Giappone

 La morte volontaria in Giappone di Maurice Pinguet è l’Interruzione che ci regala questa settimana Laura Imai Messina che stavolta si prende una pausa da un luogo comune.

Maurice Pinguet - La morte volontaria in Giappone
Autore: Maurice Pinguet
Casa editrice: Luni
Traduzione di Mario Spinella
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Impossibile da riassumere, assolutamente da leggere e rileggere, è questo lungo saggio sul senso del suicidio nel mondo giapponese, dagli albori agli anni Ottanta del Novecento, una panoramica così approfondita e competente che gli si perdona anche l’età, una lieve vecchiaia che la scrittura vibrante, eppure liscia, e soprattutto l’immensa documentazione senza tempo che presenta, non fanno sentire al lettore.

Inquadrata in un parallelo potente che mette a confronto Giappone e Occidente, onde proprio svestire di ogni presunta oggettività il giudizio (forse meglio dire “la visione”) dell’autore, la storia del suicidio nel Sol Levante è analizzata da ogni punto di vista, quello presente (statistiche alla mano), quello letterario (dal Kojiki, alla Storia di Genji, da Chikamatsu a Mishima), quello di genere (una attenzione alle differenze tra femminile e maschile si concentra in vari capitoli), quello psicologico (con una analisi illuminante sulla creazione del Super-Io in entrambe le culture), quello storico etc.

Quando si parla di Giappone, dopo l’accusa di praticare la caccia alle balene, viene immediatamente fuori la tara del suicidio che si immagina onnipresente, con tassi che superano certamente quelli del mondo intero e che giustificano quindi la nomea di “paese dei suicidi”.

Ma è davvero così?

 Maurice Pinguet, che è stato direttore dell’Istituto franco-giapponese di Tōkyō dal 1963 al 1968 (fu su suo invito che Roland Barthes visitò il Giappone, viaggio dal quale scaturì il celeberrimo L’Impero dei segni che, tra l’altro, proprio a Pinguet è dedicato), professore della Sorbona e professore di Letteratura francese all’Università di Tōkyō, lo nega con decisione:

…oggi non ci si suicida in Giappone più che in Occidente; forse un po’ più che in Francia, ma meno che in Germania. Tuttavia il Giappone passa, ai nostri occhi e certamente agli occhi degli stessi Giapponesi, per essere «il Paese del suicidio» […] Ma non è che un’illusione; il linguaggio delle cifre la smentisce.

L’autore racconta l’arte spettacolare di morire, il rituale del seppuku nelle ere, il gesto di Mishima e tutto quanto gli succedette, il suicidio di Akutagawa Ryūnosuke, gli eroi di Dazai Osamu, lo sfruttamento della morte volontaria, i legami tra amore e morte nello shinju (doppio suicidio), l’epopea dei samurai in un costante mostrarne luci e ombre con approccio privo di parzialità, da studioso dei fenomeni, sinceramente interessato a reperire un senso dettagliato in un concetto generico e spesso raffazzonato.

Maurice Pinguet svela la differenza sostanziale tra un decesso e un altro perché “la morte è sempre la stessa, ma nessun suicidio è uguale all’altro”: alcuni sono “lucidi e fecondi” come quelli dei giovanissimi kamikaze giapponesi o di militari – pur crudeli al pari di tutti gli altri – come il generale Anami il 14 agosto 1945, altri “sordidi e confusi” come invece quello di Hitler, che non muore per destinare all’ultimo istante della sua vita una forma di riscatto, ma per sfuggire alle conseguenze dei suoi atti, rendendo il proprio suicidio qualcosa da cui non impara niente e in cui a niente rinuncia.

E allora, molto sinteticamente riassumendo, cosa significa il suicidio in Giappone? Come va letto questo gesto che il Cristianesimo di cui è impregnata la nostra cultura occidentale invece sospetta e interpreta come crisi della relazione tra volontà dell’uomo e volontà divina?

…l’essenziale è che il Giappone non si è mai privato, per principio, della libertà di morire. Su questo punto l’ideologia occidentale si è invece sempre mostrata reticente.

E ancora:

Uccidersi: una possibilità senza dubbio rara e, per un popolo così dotato di vitalità, patetica; un eccesso violento, ma accettato e rispettato, una severa necessità della quale il Giappone ha deciso di non lasciarsi mai immediatamente privare per principio, come se avesse compreso che una parte essenziale di grandezza e di serenità viene a scomparire quando in una civiltà si sopprime la libertà di morire.

L’#interruzione di oggi? È chiarissima direi, una vera pausa da un luogo comune, un arresto del pensiero difficile da applicare proprio perché ha a che fare con qualcosa che è ritenuto pericolosamente ovvio un po’ in tutti gli ambienti.

Ecco, la prossima volta che state per dare per scontato che “tutti si ammazzano in Giappone”, che “quella giapponese è una società che sente il bisogno di una via di fuga attraverso il suicidio”, domandatevi (o domandate, nel caso sia un terzo a riproporre il comune pregiudizio) se avete letto questo libro, se avete consultato le statistiche pubblicate annualmente, in doppia lingua giapponese e inglese, nel volume Japan Statistical Yearbook e se le avete confrontate con quelle di altri paesi nel mondo, se avete considerato, o ne siete coscienti, del fittissimo substrato culturale che regola la morte volontaria in Giappone, la distanza sforbiciata che distingue la sua percezione letta dal cristianesimo della nostra civiltà, da quella buddhista e confuciana della loro.

E, se non lo avete fatto, se non vi siete posti neppure una di queste domande, o se ponendovele non vi siete presi la briga di rispondere a nessuna di esse, tacete.

Oppure (nel caso di una molesta terza persona) regalate questo libro di Maurice Pinguet a chi lo dice… sempre che lo legga. Perché ho come l’impressione che certe accuse fungano da consolatorio rifugio a chi non vuole credere che qualcuno possa stare, per certi versi, meglio di noi.

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