Corsi di scrittura, regole e libri “sbagliati”

Corsi di scrittura, regole e libri “sbagliati”

Un corso di scrittura che cosa dovrebbe insegnare a un autore? Come è possibile che alcuni capolavori violino esplicitamente tutte le “nuove regole”?

Qualche giorno fa ho ricevuto una mail che diceva più o meno così: “Cara Chiara, sto scrivendo il mio primo romanzo e sto studiando testi, video, corsi e apprendendo le ‘nuove strategie per scrivere in modo accattivante’. Per esempio, non usare mai gli avverbi, non fare blocchi descrittivi, evitare l’uso ripetuto di disse/dice… ho deciso di trovare un riscontro oggettivo nei libri. Sono partita con Tolkien, un disastro. Ho provato con qualcosa di più recente ma tutto quello che ho imparato in Harry Potter è completamente ASSENTE! La mia domanda è: perché un libro scritto in un modo così “sbagliato” o come direbbero certi guru, “dilettantesco” può essere il libro di narrativa più venduto di tutti i tempi mentre alle persone comuni sono richiesti tutti questi sforzi?”

Una domanda preziosa

Inutile girarci intorno: la domanda mi ha terrorizzata! Perché racchiude una serie notevole di guai. Ma è una domanda preziosa. E ringrazio infinitamente chi me l’ha posta perché la risposta non è scontata.

Per prima cosa direi che salta all’occhio l’espressione “le nuove strategie per scrivere in modo accattivante”. Che starebbe stretta anche in un webinar per realizzare buone caption su Instagram, figuriamoci in un corso di scrittura! La scrittura narrativa è solo un problema di cosa è accattivante e cosa no?

Anche la parola guru mi fa tanta paura. Chi sarebbero questi guru? E perché sono diventati tali? Cosa hanno scritto? Cosa hanno creato? Comunque sia, di seguito, ecco la mia risposta.

Una risposta tra le tante possibili

Cara XXX,
ci tengo a risponderti perché la tua domanda mi ha spaventata da morire!

Io non so chi tu segua e quali siano i tuoi guru ma:

  • disse/dissi è una ripetizione frequente, soprattutto in un testo tradotto. Poiché in inglese esiste un verbo “to say” e la ripetizione è fisiologica. In italiano è peraltro sconsigliatissimo abusare di cose come “proferì, asserì, ribatté…” perché finiscono per essere molto innaturali, macchinose. Molto meglio la ripetizione!
  • Gli avverbi sono una componente cardine della frase in inglese. Se il traduttore non trova dei modi alternativi per renderli, in italiano possono essere più numerosi. Ma usare gli avverbi in italiano non è vietato! Santo cielo, esistono e sono comodissimi! Il problema è quel “mente” che se reiterato, appesantisce i periodi e suona come una ripetizione. Basta diluirli. Evitare le cantilene. Non metterne tre di fila*!
  • Non fare MAI blocchi descrittivi… io qui mi metto le mani nei capelli perché chi ti ha detto una cosa del genere, forse non ha mai letto un libro. Le descrizioni sono una componente preziosa di un testo, semmai devono essere necessarie, visive, coinvolgenti. Originali. Dire che a Parigi c’è la Tour Eiffel e descriverla nel dettaglio è stupido, nel 2022, ma mostrarci una strada di Parigi, farci sentire il profumo del cibo che si mischia a quello traffico, farci notare l’acqua della Senna usata per pulire i canali di scolo delle strade… magari questo se detto bene, ci aiuta a vivere il contesto narrativo del personaggio. Se siamo in un fantasy il world building è molto complesso e le descrizioni abbonderanno, ma è necessario mostrare al lettore dove si trovano i personaggi e come funzionano le cose lì nel loro mondo. Se è un testo dell’Ottocento ci saranno pagine e pagine di descrizioni (non c’era Google Maps né Instagram, si leggeva per viaggiare, per vedere, per conoscere…). Basta confrontare la presentazione di un personaggio in certi romanzi di ieri e di oggi. Nel contesto contemporaneo le persone sono sommerse di immagini, più che descrivere nel dettaglio, bisogna fare in modo che chi legge sia attivato, fantastichi, lavori con la fantasia. È un modo per combattere la sua tendenza a distrarsi, tenerlo impegnato!
  • E per quanto riguarda il caro show don’t tell (mostra non dire) certo, un romanzo non è il riassunto di una storia ma è una storia che accade sulla pagina. Quindi il primo problema di un narratore è capire cosa sia indispensabile mostrare e cosa no. Dire che è un personaggio è arrabbiato è uno spreco. Farci vedere come si arrabbia è più interessante: ci arriva sia una emozione, sia una caratteristica del personaggio. Mostrare vuol dire fare in modo che la messa in scena nella testa del lettore somigli a ciò che l’autore voleva trasmettere. È un lavorone!

I buoni maestri

Quindi ogni regola va soppesata, calata in un contesto narrativo. Non generalizzata, non banalizzata… Perciò, come in tutti i campi, il primo passo è scegliere buoni maestri. E i primi buoni maestri sono i libri.

Leggere è un modo per sapere come si fa senza sapere come si fa! Quando hai imparato l’italiano da piccola non conoscevi la differenza tra soggetto e verbo e complemento ma “ho fame, mamma” sapevi dirlo, immagino. Se leggi cento libri, sai da lettrice cosa funziona e cosa no, perché su di te ha funzionato oppure no! Come si fa a farlo funzionare è una cosa che puoi approfondire con dei buoni manuali e grazie a dei bravi maestri.

Più sei brava, più potrai premetterti di fare tuoi i processi di scrittura e pure di violarli, quando lo riterrai necessario (necessario non è un errore, è una scelta).

Ma adesso, sinceramente vorrei capire cosa di questo meraviglioso attacco non ti fa venire voglia di sapere tutta la storia! Parliamo di un libro per lettori di 8-10 anni scritto nel 1997 (e la scrittura è materia viva, cambia anche nel tempo, come il linguaggio) diventato un successo mondiale grazie a tre personaggi memorabili, un mondo gustosissimo, dei cattivi super.

Non so davvero come tu possa dire che tutto ciò che hai imparato è ASSENTE in Harry Potter. Mi sento di dirti che forse devi rivedere ciò che hai imparato o dargli il giusto peso. Prendiamo l’incipit: tre righe ci teletrasportano. Poi subito vediamo. Poi capiamo che ci sono dei guai e che siamo in un mondo che ha dello straordinario…

Il signore e la signora Dursley, di Privet Drive numero 4, erano orgogliosi di poter affermare che erano perfettamente normali, e grazie tante. Erano le ultime persone al mondo da cui aspettarsi che avessero a che fare con cose strane o misteriose, perché sciocchezze del genere proprio non le approvavano.

Il signor Dursley era direttore di una ditta di nome Grunnings, che fabbricava trapani. Era un uomo corpulento, nerboruto, quasi senza collo e con un grosso paio di baffi. La signora Dursley era magra, bionda e con un collo quasi due volte più lungo del normale, il che le tornava assai utile, dato che passava gran parte del tempo ad allungarlo oltre la siepe del giardino per spiare i vicini. I Dursley avevano un figlioletto di nome Dudley e secondo loro non esisteva al mondo un bambino più bello.

Possedevano tutto quel che si poteva desiderare, ma avevano anche un segreto, e il loro più grande timore era che qualcuno potesse scoprirlo. Non credevano che avrebbero potuto sopportare che qualcuno venisse a sapere dei Potter. La signora Potter era la sorella della signora Dursley, ma non si vedevano da anni. Anzi, la signora Dursley faceva addirittura finta di non avere sorelle, perché la signora Potter e quel buono a nulla del marito non avrebbero potuto essere più diversi da loro di così. I Dursley rabbrividivano al solo pensiero di quel che avrebbero detto i vicini se i Potter si fossero fatti vedere nei paraggi. Sapevano che i Potter avevano anche loro un figlio piccolo, ma non lo avevano mai visto. E il ragazzino era un’altra buona ragione per tenere i Potter a distanza: non volevano che Dudley frequentasse un bambino di quel genere.

Quando i coniugi Dursley si svegliarono, la mattina di quel martedì grigio e coperto in cui inizia la nostra storia, nel cielo nuvoloso nulla faceva presagire le cose strane e misteriose che di lì a poco sarebbero accadute in tutto il paese. Il signor Dursley scelse canticchiando la cravatta da giorno più anonima del suo guardaroba, e la signora Dursley continuò a chiacchierare ininterrottamente mentre con grande sforzo costringeva sul seggiolone Dudley che urlava a squarciagola.

Nessuno notò il grosso gufo bruno che passò con un frullo d’ali davanti alla finestra.

Alle otto e mezzo, il signor Dursley prese la sua valigetta ventiquattr’ore, sfiorò con le labbra la guancia della moglie, e tentò di dare un bacio a Dudley, ma lo mancò perché, in quel momento, in preda a un furioso capriccio, il pupo stava scagliando i suoi fiocchi d’avena contro il muro. «Piccolo monello!» commentò ridendo il signor Dursley mentre usciva di casa. Salì in macchina e percorse a marcia indietro il vialetto del numero 4.

Fu all’angolo della strada che notò le prime avvisaglie di qualcosa di strano: un gatto che leggeva una mappa. Per un attimo, il signor Dursley non si rese conto di quel che aveva visto; poi girò di scatto la testa e guardò di nuovo. C’era un gatto soriano ritto sulle zampe posteriori, all’angolo di Privet Drive, ma di mappe neanche l’ombra. Ma che diavolo aveva per la testa? La luce doveva avergli giocato qualche brutto tiro. Si stropicciò gli occhi e fissò il gatto, che gli ricambiò l’occhiata. Mentre l’auto girava l’angolo e percorreva un tratto di strada, il signor Dursley tenne d’occhio il gatto nello specchietto retrovisore. In quel momento il felino stava leggendo il cartello stradale che indicava Privet Drive. No, lo stava guardando; i gatti non sanno leggere le mappe e neanche i cartelli stradali. Il signor Dursley si riscosse da quei pensieri e allontanò il gatto dalla mente. Mentre si dirigeva in città, non pensò ad altro che al grosso ordine di trapani che sperava di ricevere quel giorno.

Ma una volta giunto ai sobborghi della città, avvenne qualcos’altro che gli fece uscire di mente i trapani. Fermo nel solito ingorgo del mattino, non poté fare a meno di notare che in giro c’erano un sacco di persone vestite in modo strano. Gente con indosso dei mantelli. Il signor Dursley non sopportava le persone che si vestivano in modo stravagante: bisognava vedere come si conciavano certi giovani! Immaginò che si trattasse di qualche stupidissima nuova moda. Mentre tamburellava con le dita sul volante, lo sguardo gli cadde su un capannello di quegli strampalati, vicinissimo a lui. Si stavano bisbigliando qualcosa tutti eccitati. Il signor Dursley sentì montargli la rabbia nel constatare che ce n’erano un paio tutt’altro che giovani. Ma che roba! Quello lì doveva essere più anziano di lui, e portava un mantello verde smeraldo! Che faccia tosta! Poi però gli venne in mente che potesse trattarsi di qualche sciocca trovata. Ma certo! Era gente che faceva una colletta per qualche motivo. Sì, doveva essere proprio così. In quella, il traffico riprese a scorrere e alcuni minuti più tardi il signor Dursley giunse al parcheggio della Grunnings con la mente di nuovo tutta presa dai trapani.

Tolkien è un capolavoro di complessità (iniziato nel 1954, parliamo di settanta anni fa) quello che sembra un lungo racconto per intrattenere e inventarsi lingue e creature strambe è uno strumento per parlare di borghesia, destra, liberali, Bene, Male, potere… Parliamo di high fantasy e il genere ha le proprie regole, le proprie caratteristiche distintive. Ha poco senso paragonarlo a un Harry Potter o a un romanzo mainstream contemporaneo o a un giallo.

Quando il signor Bilbo Baggins di Casa Baggins annunziò che avrebbe presto festeggiato il suo cento undicesimo compleanno con una festa sontuosissima, tutta Hobbiville si mise in agitazione.

Bilbo era estremamente ricco e bizzarro e, da quando sessant’anni prima era sparito di colpo, per ritornare poi inaspettatamente, rappresentava la meraviglia della Contea.

Le ricchezze portate dal viaggio erano diventate leggendarie, ed il popolo credeva, benché ormai i vecchi lo neghino, che la collina di Casa Baggins, fosse piena di grotte rigurgitante di tesori. E, come se ciò non bastasse, ad attirare l’attenzione di tutti contribuiva la sua inesauribile, sorprendente vitalità.

Il tempo passava lasciando poche tracce sul signor Baggins: a novant’anni era tale e quale era stato a cinquanta; a novantanove cominciarono a dire che si manteneva bene: sarebbe stato più esatto dire che era immutato. Vi erano quelli che scuotevano la testa, borbottando che aveva avuto troppo dalla vita: non sembrava giusto che qualcuno possedesse (palesemente) l’eterna giovinezza ed allo stesso tempo (per fama) ricchezze inestimabili. “Sono cose che dovremo scontare”, dicevano; “non è secondo natura e ci porterà dei guai!”

Anche qui, le premesse direi che non solo maluccio!

Insomma, io farei il contrario. Prima leggerei tanti libri e poi mi sorbirei i guru, per capire quando dicono cose sensate e quando no. Per allenarmi a vedere, al dubbio, al bello, alla soprese, alle regole violate.

Ogni corso di scrittura è, per forza di cose, una semplificazione: non puoi tenere conto di tutte le infinite variabili. Puoi aiutare gli autori a portare la propria attenzione su un aspetto della narrazione, così da permettergli di compiere scelte consapevoli. E così decidere quando ha senso inserire una descrizione? Quando posso usare un avverbio? Quando devo mostrare e quando no?

Perché ogni scelta sulla carta ha un effetto, se ipotizzi quale sia, hai il controllo. A mio avviso la cosa peggiore che possa succedere a un autore non è non pubblicare una storia, ma pubblicare un libro e scoprire che ai lettori è arrivato tutt’altro e sentirsi traditi dalla propria scrittura. Un caro saluto e buone letture!

Occhio ai guru!

Eccola qui la mia risposta. L’invito è allenarci tutti a capire “cosa rende un buon libro un buon libro?” e a evitare il tranello delle “regolette”, dei guru che rifilano i dogmi e le soluzioni copia e incolla, così da fare un percorso produttivo. Vale per chi studia e cerca di migliorarsi come autrice/autore, vale per chi tenta di analizzare i meccanismi della scrittura.

*Ma come mi ha fatto notare qualcuno nei commenti su Instagram. In Todo modo Sciascia ne usa una infinità! Della serie “magari non si fa, ma io posso farlo”!

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