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Con tutto il garbo che mi contraddistingue

Una fuga. Una volata a caccia d’una boccata di aria fresca. Un racconto di Olivia Crosio da non perdere!

Nei corsi di scrittura narrativa (a narrare si può insegnare a essere creativi, no) alle volte sbocciano fiori. Anni fa frequentavo quelli tenuti da Raul Montanari e un giorno ho avuto il piacere di ascoltare questo racconto. L’autrice è Olivia Crosio che, nel frattempo, di romanzi ne ha pubblicati cinque. Poterlo postare qui è un regalo. Grazie, Olivia! E a voi buona lettura.

9 gennaio, giovedì

Cara Silvia, scusami. Non sono venuto all’appuntamento e non mi sono più fatto vivo. Ma non sono morto e nemmeno in fin di vita in qualche pronto soccorso. Eccoti lo straccio di spiegazione che di sicuro stavi aspettando con tormento.

Lunedì mattina mi sveglio presto, che è ancora buio, e ho questo bisogno incontenibile di aria. Guardo fuori: la darsena è tutta gelata. Allora prendo e d’impulso, come se lo facessi ogni giorno, metto il mio golfone blu, arrotolo una sciarpa attorno al collo, infilo i guanti e il berretto di lana ed esco. Ho con me i pattini.

In giro non c’è un’anima, solo un tram vuoto che sferraglia verso Via Vigevano. I primi esseri viventi che vedo sono le anatre che zampettano sul ghiaccio. Scivolano, cadono sulla pancia grassa, starnazzano. Sono uno spettacolo. Abbandono le scarpe sotto il ponte del Naviglio Grande e parto. All’inizio vado piano. Ho il naso e la punta delle dita ghiacciati, ma mi piace, questo gelo cristallino: mi costringe all’azione. Dopo i bar, dopo San Cristoforo e le canottieri, ci metto un po’ più di energia, e il vento mi stacca di dosso i primi pensieri grevi. Volano via come pezzetti di fango da una carrozzeria incrostata. Sta funzionando, quindi. Bene.

È un attimo arrivare a Gaggiano. Qui il Naviglio prende respiro, si allarga. Non ho più freddo, sono contento. È ancora buio, ma da una cascina si alza il primo canto del gallo. Tra poco albeggerà. Il sangue mi circola nel corpo come un benefico grog. Tutta la mia ansia è scivolata in secondo piano. Anche tu, Silvia. Dietro gli occhi ora c’è spazio solo per la striscia di ghiaccio che sto percorrendo a grande velocità. Sì, sono molto concentrato. Distrarsi può essere pericoloso. Poco dopo, infatti, evito per un soffio un cormorano che sbuca in volo dal nulla per andare a tastare il ghiaccio con il lungo becco. Ma lascia perdere, vorrei dirgli. Goditi la superficie.

Alla curva di Abbiategrasso, mi inclino a destra a braccia spalancate come un aeroplano. Mi sento schifosamente felice. A Cassinetta vedo il primo essere umano, una ragazza sul ponte: sembra carina, mi fa ciao con la mano. Le mando un bacio. Sfreccio tra le ville screpolate di Robecco, inseguito da due cani, uno per sponda, che abbaiano come se gli avessi rubato l’osso. Ma io sono talmente più veloce, Silvia. E non tocco nulla, scivolo via leggero come una brezza in mezzo alle cose. Che bella sensazione, amore mio. Perché non provi anche tu?

Sul Ponte Vecchio di Magenta c’è un prete tutto nero appoggiato al parapetto, che parla al telefonino. Quando si accorge di me si raddrizza, si agita. Io gli passo sotto con un brivido. Sono sicuro che è corso all’altro parapetto a guardarmi. Ma che ti frega, prete? Mai visto un uomo in maglione che pattina all’alba di un lunedì sul Naviglio ghiacciato con dieci gradi sotto zero? Mai visto uno che prende respiro dalla vita, anche da Silvia?

Penso: non è che non ti voglio più bene, è che non posso stare sempre lì a surriscaldarmi. Ogni tanto ho bisogno di un po’ di fresco.

Il prete deve aver sparso la voce, perché a Boffalora comincio a trovare gente che mi aspetta sulle alzaie: bambini imbacuccati, donne alla finestra, qualche auto ferma. Nessuna ragazza carina, qualche vecchio a ricordarmi che anch’io un giorno dovrò morire. Ma non oggi e nemmeno domani: sono troppo veloce, allegro e accaldato per i tuoi gusti macabri, Morte. Rispondo educatamente ai saluti e scivolo via.

A Castelletto di Cuggiono rallento. Non perché sia stanco, ma perché sulle terrazze di palazzo Clerici trovo ad aspettarmi la banda. Ecco, io non so se stia aspettando proprio me, ma quando compaio in lontananza attaccano a suonare. La musica da banda mi commuove. C’è sempre qualcuno che stona, qualcuno che sbaglia, una malinconia di fondo, come dire: «Abbiate pazienza. Avremmo voluto far meglio, ma non ci siamo riusciti.» E io mi mordo il labbro. È uno strano spettacolo, quello delle terrazze, perché oltre alla banda c’è mezzo paese, e quanti poveracci vedo, gente in carrozzella, una matta mezza nuda che corre lungo la riva urlandomi: «Ehi, occhi verdi! Portami con te!»

Silvia, i miei occhi sono sempre stati azzurri. Da quando ti ho conosciuto, tutti mi dicono che li ho verde cupo, e questo non mi piace.

A Turbigo arriva la sorpresa. Sono scesi sul letto gelato del Naviglio, lo occupano tutto. Cosa vogliono da me? Devono avermi scambiato per il Messia. Forse aspettano discorsi, guarigioni, la salvezza eterna. Non ho tempo, non ho voglia. Non posso interrompere questo volo perfetto: il mio cuore ormai è un metronomo, le falcate sono tutte identiche, la temperatura corporea è costante, sono una locomotiva beatamente in corsa. Non mi fermate, vi prego. Sai che faccio? Sorrido, spiego le ali come un uccello e continuo a spingere con i pattini. Li vedo sbigottirsi, poi schizzare verso gli argini per farmi largo. La folla compatta si divide in due e si richiude in un batter d’occhio, e mentre passo nessuno fiata. Devono esserci rimasti male. Ma che colpa ho io delle loro disgrazie? Delle loro facce deluse, della loro disoccupazione, di quel nugolo di bambini ciechi e pallidi ciascuno con il suo bastoncino bianco?

Da qui il Naviglio si fa più selvaggio. È incredibile quanti uccelli ci sono da queste parti: folaghe, gabbiani, svassi, garzette, e gl’immancabili  passeri. Sorvolano quest’acqua solida e opaca che ieri non era così, chissà che cosa è successo. I loro occhi inespressivi oggi sono ancora più tondi. Pattino con le mani dietro la schiena, fluido e sereno, e l’aria gelata nei polmoni è un toccasana. Ho sempre amato il freddo e tutto ciò che è trasparente. Silvia dal pensiero fangoso, zavorra mia, non ce la faccio più. Che ci sto a fare con te? Se penso a ieri sera e a quanto sto bene oggi…

Tornavento è un nome bellissimo per un paese, e qui non c’è nessuno ad aspettarmi. C’è solo un pianto inconsolabile di bambino, un lamento da spezzare il cuore che mi lascio dietro in un lampo. Ed eccomi alla muraglia che separa le acque del Naviglio da quelle del Ticino. Dopo cinquanta chilometri di canale, sboccare nel fiume è un trionfo. Una volpe attraversa cauta la corrente paralizzata dal gelo. È come se avessi il motore, potrei proseguire all’infinito. Il fiume curva, si allarga, si strozza, torna su se stesso, ci ripensa, si divide, si ritrova, corre da una cascina all’altra per toccarle tutte, è gioia in forma liquida — oggi solida, perché io possa compiere fino in fondo questo rito purificatore, sciacquarmi di dosso la tua melma rappresa. Quanto mi opprimi, Silvia.

Passo sotto il ponte di ferro di Sesto Calende e subito dopo sono nel lago. Non ci posso credere. Ecco Angera e la sua rocca, ecco l’Isola Bella con i suoi pavoni e fagiani offesi e infreddoliti. Ma com’è vasto qui. Mi ci perdo. Devo andare verso questa sponda o l’altra? Oppure devo stare al centro, dove un battello imprudente è rimasto incastonato nel ghiaccio e ha liberato sul piano di madreperla il suo carico di formiche umane? Incrocio le loro impronte perplesse dirette a Intra.

Adesso ho fame e sete, e sono stanco. Ma tu non sai quanto sono felice. Smetto di spingere e dopo un po’ i pattini si fermano, con me sopra. E adesso? sembrano chiedere. Mi volto e torno indietro.

Ma come vedi sono passati quattro giorni e non sono ancora arrivato. Già, perché quando sono ripassato da Tornavento il bambino non piangeva più, anzi forse era quello che finalmente aveva ottenuto dalla mamma il permesso di giocare a pallone sul ghiaccio.

E a Turbigo tutti quei poveracci si erano dispersi a chiacchierare sull’alzaia, e una volta capito che non ero il Messia mi hanno fermato con garbo e offerto un buon risi e bisi, e i bambini ciechi con il bastone hanno voluto provare i miei pattini.

A Castelletto di Cuggiono la matta era stata rivestita di tutto punto e la banda aveva messo da parte gli strumenti per una improvvisata partita di hockey davanti al pubblico acclamante dei paralitici. I vecchi di Boffalora non hanno nemmeno loro intenzione di morire presto e il prete di Magenta, quello con il telefonino, in casa sua gira con un maglione giallo e sa cucinare le rane fritte migliori di tutta la provincia. (Anche se i suoi commenti sull’azzurro dei miei occhi mi hanno un poco imbarazzato.)

Mentre tu, Silvia, sei stata attenta a non prendere freddo e hai a lungo ragionato sul perché e il percome, tormentandoti sulla mia assenza e aspettando invano una telefonata. Che adesso che ci penso, e te lo dico con tutto il garbo che mi contraddistingue, non arriverà mai.

Non più tuo

Marco

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12 comments

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Aldo 08/09/2015 at 14:26

Grazie a tutti. A Chiara, a Silvia e naturalmente a Olivia! 🙂

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Chiara Beretta Mazzotta 08/09/2015 at 14:52

Son giornate di racconti 😉 Ne ho ricevuto un altro per posta molto gagliardo. Ne sai qualcosa, Aldo?

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carlofraue 08/09/2015 at 15:09

Sembra essere un ottimo libro voi lo avete letto ?

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Chiara Beretta Mazzotta 08/09/2015 at 15:41

Ciao Carlo. È un ottimo racconto! Se vuoi leggere altro di Olivia Crosio, qui trovi i titoli http://www.amazon.it/s/ref=nb_sb_noss_2?__mk_it_IT=%C3%85M%C3%85%C5%BD%C3%95%C3%91&url=search-alias%3Daps&field-keywords=olivia+crosio

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Barbara 08/09/2015 at 15:47

Ma non è una lettera troppo lunga per mollare una donna?
O meglio, per essere scritta da un uomo, che vuole mollare una donna?
Che se non gli arriverà mai la telefonata, gli arriverà mai la lettera? 😉

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Chiara Beretta Mazzotta 08/09/2015 at 15:50

Più che una lettera è il pensiero di una lettera. Forse non la scriverà mai. Forse è solo una riflessione ad alta voce. Forse è una lettera per davvero.
E non mi dirai che credi che gli uomini non scrivano lettere e non siano sentimentali e/o contraddittori e verbosi e melensi eccetera. Te ne presento un paio. Ahahahahaha

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Barbara 08/09/2015 at 15:55

Eh, gli scrittori non fanno testo, è un mondo a parte! 😉

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Chiara Beretta Mazzotta 08/09/2015 at 15:59

Io ho pensato pure a certi copy. Agli sceneggiatori. E i librai dove li mettiamo?! E poi qualche idraulico, certuni antiquari… 😉

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Barbara 08/09/2015 at 16:03

Nel tempo libero scrivono? Allora sono scrittori. Non pubblicati, ma scrittori. 😉

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Chiara Beretta Mazzotta 08/09/2015 at 16:12

Sei tremenda. Tremenda! 😉

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sandra 08/09/2015 at 16:53

WOW che godimento questo racconto, mi sono immaginata tutto il percorso che conosco e sono felice che:
A tu l’abbia postato
B Olivia l’abbia ceduto a noi tutti (grazie!)
C Olivia abbia pubblicato diversi libri, senza quindi essersi arresa alle difficoltà editoriali che spesso sono come il ghiaccio – per rimanere in tema – che si crepa e crak si sprofonda e ciao
D ma che ricchezza questo bookblister pure con i racconti!

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Chiara Beretta Mazzotta 08/09/2015 at 20:51

Ah, quest’anno non badiamo ai pixel! Facciamo okkupazione con le parole 😉
Calcola che se penso a un racconto bello del corso, penso a questo. Perché proprio mi è rimasto nel cuore. E questa volata sul ghiaccio a me, solo a immaginarla, dà una immensa libertà.
Bacio

P.S. Entro lunedì ti dico ciò che sai. Bacio bis

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