Slumberland

Slumberland

Ci sono alcuni libri che, varcata la porta di casa, è un po’ come se finissero in un limbo. Sai che ci sono, ma non li leggi. Dalla scrivania li sposti su una mensola e poi te li ritrovi su una sedia… Vivono di ricollocazioni in paziente attesa che tu, finalmente, ti decida a prenderli in mano e faccia di loro quello per cui sono nati.
A Slumberland è toccata questa sorte. E lo ringrazio per la pazienza, perché è un libro del genere “colpito e affondato”. Così mi sono sentita dopo averlo letto certa che, prima o poi, avrò la voglia di rituffarmici.
Siamo nel 1989, Ferguson W. Sowell, in arte DJ Darky, vive a Los Angeles e sopravvive componendo colonne sonore per i film porno. Un giorno il suo capo gli fa vedere una videocasetta – per amor di cronaca si tratta di un tizio che se la fa con un pollo – perché ha una musica che proprio non va: “Troppo bella. Questa roba è diventata un film d’arte. Un maniaco depravato in una cabina da prono show (…) vuole roba sporca. (…) Voglio che tu la prenda a esempio di quello che non devi fare” .
Ma Darky in quel beat divino riconosce subito la mano di Charles Stone, detto lo Schwa, genio jazz che si è dato all’anonimato. E decide che è arrivato il momento di scovarlo per fargli suonare questa melodia perfetta e trascendente. Grazie al mittente scritto sulla busta della videocassetta, viene a conoscenza dell’esistenza, a Berlino, di un certo Slumberland bar. Basta questo indizio per fargli fare le valige.
E in questo localaccio fumoso Darky si inventa il lavoro da jukebox sommelier che gli permette – mentre passa da un letto all’altro – di sperimentare suoni, ritmi e generi. Un’educazione musicale capace di aprirgli un mondo. E mentre va a caccia del suo Schwa, ci regala caustiche considerazioni sulla condizione dei neri in America e in Europa, sui rapporti tra bianchi e neri, sulla musica jazz e techno, sulla vita in Germania dopo il crollo del muro… il tutto spolverato da un senso dell’umorismo affilato che non perde occasione per combattere contro i luoghi comuni. Spettacolare!

L’incipit
Potresti pensare che ormai si siano abituati a me. Voglio dire, non lo sanno che dopo millequattrocento anni le menate sui neri sono finite? Che noi neri un tempo perennemente alla moda, sempre aggiornati come l’ora di Greenwich, oggi siamo storia di ieri, come gli utensili dell’età della pietra, il velocipede e le cannucce di carta? Ormai è ufficiale: i negri sono esseri umani. Lo dicono tutti, perfino gli inglesi. Non ha importanza se ci credono davvero; siamo mediocri e banali come il resto della specie. Le anime tormentate dei nostri morti ora sono libere di esprimere ciò che sono in realtà, oltre quella patina da primitivi moderni. Josephine Baker può togliersi l’osso dal naso, e il suo scheletro dalle gambe storte può tornare alla propria dotazione originaria di duecentosei. Il fantasma tormentato di Langston Hughes può posare la stilografica Montblanc (un regalo) e spalancare la bocca. Non per recitare i suoi versi populisti in rima. Ma per leccare e succhiare il portentoso membro di un delinquente di Harlem e mettere in pratica quella che dopotutto è la vera tradizione orale. I nostri rivoluzionari possono deporre le armi. La guerra è finita. non ha importanza chi ha vinto, prendete i vostri revolver, le pistole da quattro soldi, le calibro nove, quelle che da sbronzi agitavate in faccia ai bambini gridando spacchiamo il culo ai bianchi, prendetele e chiudetele nella vetrinetta, immobili e passive a far compagnia allo schioppo, all’archibugio portoghese e al moschetto da Minuteman. Anche per il più coraggioso di noi il grido di battaglia non è più «Ci vediamo all’inferno», ma «Ci vediamo in tribunale».

Slumberland, Paul Beatty, traduzione di Silvia Castoldi, Fazi, p. 323 (18,50 euro)

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