“Sicuro che oggi non mi ammazzeranno” chiede un certo Soroush al suo interlocutore che, in effetti con la vita e la morte ci lavora.
Will Cochrane è infatti una spia, nome in codice Spartan (questo il titolo originale del libro) e per ordine dell’M16 e della CIA dovrà vedersela con Megiddo (ovvero Armageddon, giudizio finale in persona) iraniano, artefice dei più temibili attentati avvenuti negli ultimi anni.
Gli ingredienti ci sono tutti: abbiamo l’eroe, anzi il supereroe, orfano di trent’anni con un fratello nella CIA, che ha in mano il destino non di un Paese ma del mondo tutto; il nemico che sembra sempre avanti di un passo (e che è il personaggio migliore del libro); una donna, Lana, che farà innamorare Will rendendolo anche più debole.
Matthew Dunn, l’autore, agente dell’M16 lo è stato davvero, con il compito di arruolare agenti segreti e spie da infiltrare. E questa cosa non mi ha affatto tranquillizzata. Perché, se a difenderci c’è davvero gente come ce la descrive Dunn, a mio avviso siamo spacciati! Primo, questi superuomini addestrati a tutto non paiono troppo capaci di intendere e volere; secondo, credono di vivere in un romanzo di spionaggio. Che è peggio!
Insomma, va bene l’eroe, ma alle volte il rapporto con il verosimile viene meno, per così dire. Per esempio quando – siamo all’inizio della storia – Will se la deve vedere con un caro amico (il sopracitato Soroush) e se le sparano di santa ragione. Spartan si becca tre pallottole nello stomaco. Ed ecco che si sveglia in ospedale e, come dopo un sonnellino, si alza, tranquillo, e prende un volo per Londra.
Un altro problemino? Una spia deve essere invisibile ma la cura del corpo viene prima di tutto, a cominciare dal profumo. Ecco perché il nostro eroe ha la freddezza di ricordarsi, tra una sparatoria e l’altra, di comprare il suo Egoiste di Chanel (e visto che è in ballo si prende pure un completo di Hugo Boss, ché arrivasse la fine del mondo guai a trapassare in jeans e maglietta…).
La lacuna più evidente, però, a mio avviso consiste nel dosaggio dell’informazione, o meglio, nel modo in cui Dunn decide di mettere al corrente il lettore di alcuni aspetti chiave dell’intreccio: lo strumento prediletto sono i dialoghi tra i personaggi. Solo che questi poveretti, finiscono tutti con il sembrare preda dell’Alzheimer, a furia di ripetersi cose che, in realtà, conoscono benissimo.
Anche l’uso delle didascalie lascia un po’ a desiderare. È tutto un mettersi la mano tra i capelli, scuotere il capo, aggrottare ciglia, sospirare… un ipertratteggio che vorrebbe rendere la scena visiva ma finisce con lo scadere nel fumettistico.
Insomma, credo che Ian Fleming possa dormire sonni tranquilli dal paradiso degli scrittori. James Bond è ancora vivo, vivo e vegeto.
Spykiller, Matthew Dunn, traduzione di Michele Lasvet, Longanesi, p. 421 (17,60 euro)
2 comments
Una dimostrazione di quanto possa essere difficile difficile gestire dei personaggi coerenti e credibili, anche quando si muovo in un mondo che si conosce per esperienza diretta.
Già. Molti sbandierano il vero, il realmente accaduto, l’autobiografico quasi fossero pecette che donano immediata credibilità a una storia. Che importa se è vera, quando non è però credibile? Quando non arriva perché è finta?
E poi c’è il grande problema di costruire personaggi e non persone. Che è un po’ come frequentare amici falsi. Una perdita di tempo.
Ciao, Tales.
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