La trilogia nera

La trilogia nera


Sarebbe stata la nostra ultima partita a dama. Di solito giocavamo nella mia cella, ma questa volta eravamo nell’ufficio di Morris. Negli ultimi sette anni ne avevamo giocate decine di migliaia, di queste partite. Io ne vincevo una ogni quattro o cinque, le altre le lasciavo vincere a lui.
Morris Smith era il direttore del carcere di contea, qui a Bradley. Era un omone sulla sessantina, con un faccione tondo e morbido e una pelata incorniciata da pochi capelli. Mi piaceva, o perlomeno non mi dispiaceva più di altri. Avrebbe potuto rendermeli difficili, quegli ultimi sette anni, invece mi trattava meglio che poteva.
Studiai per qualche secondo la damiera e vidi che potevo portarmi in vantaggio e ottenere una vittoria sicura, oppure espormi a una tripla presa da parte sua. Mi finsi immerso in profonda riflessione per un paio di minuti, poi feci la mossa che gli avrebbe permesso la tripla presa.
Morris sedeva in silenzio, gli occhietti che dardeggiavano da una pedina all’altra. Gli vidi un momentaneo scintillio nello sguardo quando riconobbe la combinazione che portava alla tripla presa, e osservai divertito come cercava di reprimere un sorriso. Spostò in avanti la sua pedina con la grossa mano che tremava.
«Mi sa che hai fatto la mossa sbagliata, giovanotto» mi disse compiaciuto con voce gutturale.
Rimasi immobile per qualche istante, poi imprecai fingendo di capire solo allora il mio sbaglio. Pronunciando un’ultima bestemmia, feci l’unica mossa possibile e guardai Morris avventarsi con un triplo salto sulle mie pedine.
«Mi sa che ti ho fregato» decretò.
Restavano poche mosse da fare. Sapevo che a Morris dava enorme soddisfazione togliere l’ultima pedina dalla damiera. Quando la partita fu finita, mi fece un sorrisetto e mi offrì la mano per una stretta conciliatoria.
«È stata una bella partita» disse. «Peccato per quell’errore.»
«Cosa vuoi che ti dica. Sono sette anni che me lo metti in quel posto. Devo ammettere che sei stato un degno avversario.»
Morris gongolò, poi guardò l’orologio. «I tuoi documenti sono pronti. Sei un uomo libero. Ma se vuoi ordino qualcosa da mangiare e ci facciamo un’ultima partita.»
«Mi piacerebbe, ma è da sette anni che muoio dalla voglia di un cheeseburger e un paio di birre.»
«Posso farteli portare qui.»
«Sì, certo.» Esitai. «Ma potresti passare dei guai, Morris, e non avrebbero lo stesso sapore, qui dentro. Senza offesa.»
Lui annuì, ma la sua faccia tonda sembrava delusa. «Joe, mi sono affezionato a te, in questi sette anni. Non credevo che sarebbe successo, dopo quello che hai combinato per finire in galera. Posso darti un consiglio da amico?»
«Certo.»
«Perché non ti rifai una vita da un’altra parte? In Florida, magari? Io fra tre anni, quando andrò in pensione, mi trasferirò a Sarasota. Non so che farmene, di questi maledetti inverni del New England.»
«È un buon consiglio, ma una delle condizioni della mia libertà vigilata è che rimanga a Bradley.»
«Puoi chiedere un cambio di indirizzo.»
«Sì, naturale. Potrei, ma i miei stanno invecchiando e mi piacerebbe recuperare il tempo perduto.»
Morris si strinse nelle spalle. «Pensaci, almeno. Non credo che Bradley sia un buon posto per te. Non più.»
«Apprezzo il consiglio, ma non ho molta scelta. Non subito.»
Ci alzammo e ci stringemmo la mano. Io mi girai per prendere la mia sacca da viaggio e Morris mi chiese se volevo chiamare i miei perché mi venissero a prendere. Gli risposi che sarei andato in taxi. Feci una rapida telefonata, firmai i documenti e Morris mi accompagnò fuori. Il taxi mi stava già aspettando, ma c’era un tipo chino davanti al finestrino, che parlava con il conducente. Il taxi ripartì e quando l’uomo si raddrizzò lo riconobbi all’istante. Per forza: quella faccia devastata e quel naso amputato potevano appartenere solo a lui. Era stato un bell’uomo, prima di beccarsi tredici stilettate in pieno viso.
Morris appariva a disagio. «Bene, ehm… è stato un piacere averti nostro ospite, giovanotto. Se ti viene voglia di passare per una lezione sulla teoria della dama, fai pure.» Poi aggiunse, in tono serio: «Cerca di tenerti fuori dai guai.»
Mi diede una pacca sulla schiena e salutò con la mano l’altro tizio, poi tornò dentro. L’altro tizio sorrideva, ma il sorriso non comprendeva gli occhi. Era come guardare un serpente a sonagli con la bocca aperta.
Gli feci un cenno con la testa. «Non voglio guai, Phil» dissi.
Phil Coakley continuò a sorridere e i suoi occhi a restare di vetro. Era il procuratore distrettuale della nostra contea. Sapevo che si era preso tredici stilettate in faccia perché mi aveva detto che lo avevo colpito esattamente quel numero di volte. Era in buona parte per questo motivo che avevo trascorso gli ultimi sette anni al fresco.
«Mi dispiace per come sono andate le cose» gli dissi, tenendomi a distanza.
Lui mi fece cenno di avvicinarmi Il suo sorriso era intatto, ma nei suoi occhi ancora niente. «Nemmeno io voglio guai, Joe. Per quanto mi riguarda hai pagato il tuo debito alla società, e quel che è fatto è fatto. Voglio solo fare piazza pulita dei vecchi rancori. Vieni qui, parliamo un attimo.»
Non mi andava, ma non mi sembrava di avere molta scelta. Quando gli fui più vicino vidi meglio le cicatrici, e dovetti farmi forza per non abbassare gli occhi. Il danno era molto peggiore, visto da vicino. Sembrava quasi che qualcuno avesse giocato a tris sul suo viso, come se lui fosse la grottesca caricatura di una striscia di Dick Tracy. La sua faccia era un insieme di parti che non combaciavano. E quel pezzo di naso che mancava, dio santo. Per quanto fosse dura, continuai a fissarlo.
«Spero che non ti dispiaccia, Joe, ma ho chiesto al tuo taxi di tornare fra un po’, per poter scambiare due parole con te.»
«Certo, hai fatto benissimo.»
«Ho aspettato qui per quasi un’ora. I tuoi documenti dovevano essere pronti a mezzogiorno.»
«Sai com’è Morris. La fa sempre lunga.»
Phil annuì lentamente. «Ma guardati, Joe. La galera ti ha fatto bene. Non hai più la pancia. Accidenti, erano anni che non ti vedevo così in forma! Ma tu non potrai dire lo stesso di me.»
«Se potessi tornare indietro e cambiare quello che ho fatto…»
«Sì, lo so, non ti preoccupare di questo. Ormai è andata.» Tacque per un momento, sempre con quel sorriso duro. «Ogni tanto mi chiedo come tu sia riuscito a scontare la tua pena in una prigione di contea. Incendio doloso, tentato omicidio, mutilazione di un procuratore distrettuale, e sei finito qui. Sono sette anni che cerco di farti trasferire in un carcere di massima sicurezza, ma sei nato sotto una buona stella. Anche l’assegnazione di Craig Simpson come funzionario di sorveglianza.»
Non risposi. Lui scrollò le spalle, sempre sorridendo. «Ma è acqua passata» disse. «Hai pagato il tuo debito, anche se sette anni non mi sembrano abbastanza. Qual era in origine la sentenza? Ventiquattro?»
«Da sedici a ventiquattro.»
«Da sedici a ventiquattro.» Phil emise un breve fischio. «A me sembra così poco per quello che hai fatto. E ne hai scontati solo sette, in una prigione di contea, servito e riverito ogni momento da Morris Smith.»
«Non è stato facile. Mia moglie ha chiesto il divorzio…»
«Sì, lo so. Anche la mia. Credo che facesse fatica a guardarmi in faccia.»
Phil non sorrideva più. Lo fissai, lui e le cicatrici di cui ero responsabile. Dopo un po’ gli chiesi che cosa voleva.

La trilogia nera,Dave Zeltserman, traduzione di Marta Milani, TimeCrime, p. 827 (12 euro)

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