A un passo dalla felicità

A un passo dalla felicità

Nei momenti di crisi è difficile avere uno sguardo sul mondo propositivo. Si respira un’aria di minaccia e si finisce un po’ con il sopravvivere perché, tirare in là, pare l’unico obiettivo. E la felicità?

Che ne è di questa spinta necessaria che ci muove a fare e programmare. Perché non è tanto la gioia, quanto la sua possibilità a essere il carburante che ci permette di metterci in gioco e accettare le sfide quotidiane. Cosa accade se questo meccanismo va in cortocircuito? Lo chiediamo a Olga Chiaia, psicologa e psicoterapeuta, che in A un passo dalla felicità. Ritrovare la gioia nei momenti di crisi (Urra edizioni) affronta questo spinoso argomento.

Il mondo non digerisce l’infelicità. La lamentela generalizzata è accettata, ma il grido d’aiuto del singolo spaventa. Perché?
L’infelicità, come la solitudine, non sono più condivise. Siamo disposti a spogliarci, ci mostriamo nelle nostre reazioni emotive solo quando sono eccessive, spettacolari. Per far parlare di noi. Ma ci vergogniamo delle nostre imperfezioni. Abbiamo sviluppato un pudore che non riguarda più il corpo, ma la nostra anima. E così tentiamo di apparire sicuri, quando invece proviamo tutt’altro. Il senso di inadeguatezza, però, è una percezione diffusa. Le troviamo persino in pellicole di successo come Habemus papam o Il discorso del re. Uomini di prestigio, in ruoli di rilievo che si confrontano con il sentimento più umano eppure, più nascosto: la solitudine e il timore di non riuscire a farcela. Ma il fatto che se ne parli è un ottimo segnale. Stiamo andando nella giusta direzione.

In effetti dobbiamo confrontarci non solo con problemi ben identificati ma anche con ansie generalizzate.
Viviamo uno stato di insoddisfazione e non siamo capaci di mettere a fuoco il problema. E, soprattutto, andiamo a cercare la soluzione nei posti sbagliati. Non vogliamo sentirci inadeguati e facciamo di tutto per manifestare una sicurezza di facciata che non ci faccia sentire “nudi” di fronte al prossimo. Rifiutiamo l’imperfezione, ci disumanizziamo. Ed ecco per esempio il ricorso a droghe come la cocaina, che non sono piacevoli in sé, ma rappresentano una sorta di medicamento per la nostra insicurezza.

L’infelicità è una condizione con cui tocca confrontarsi. Il problema nasce quando non riusciamo a ricondurre il disagio a nessun “fattore scatenante”?
Ci sono dei sintomi precisi che distinguono la depressione dall’infelicità. Campanelli di allarme che si attivano proprio per metterci in guardia. E non si tratta di un fenomeno marginale. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha previsto che nel 2020 la depressione sarà la seconda causa di invalidità dopo i disturbi cardiovascolari. Addirittura si parla della “peste senza bacillo” e, in effetti, il “contagio” avviene tutti i giorni. Nelle case dove vivono depressi, negli uffici si crea una sorta di “aurea negativa” che favorisce l’insorgere della patologia. Tutti noi abbiamo una predisposizione sia a livello genetico sia a livello di apprendimento, le donne sono per esempio considerate più a rischio per le questioni ormonali che vengono tirate in ballo un po’ troppo spesso e il rischio di banalizzare è alto. Quello che conta è sviluppare degli “anticorpi”. Avere la possibilità di parlare, di condividere i propri stati d’animo. Non lasciare campo libero all’auto-considerazione negativa.

La condivisione è una chiave. Poi forse dovremmo smetterla di inseguire un’idea di benessere fittizia…
Il problema è che non assecondiamo più quelle che io definisco le nostre “fasi lunari”. Siamo governati da un ritmo di cui non siamo consapevoli e così non ci permettiamo di vivere cicli che sono fisiologici. Vale a dire che se non siamo capaci di sperimentare a pieno i momenti bui, ci impediamo di godere persino dei pleniluni. Così scivoliamo nel “buio”. Affondiamo perché ci siamo prefissati un obiettivo assurdo: la felicità a oltranza che è un traguardo fittizio. E il motivo è semplice: la felicità è una fase, non una condizione stabile e duratura.

Lei ha scritto anche della solitudine. Sembra assurdo che con tutte le possibilità di comunicare ci si senta soli. Cosa stiamo sbagliando?
Siamo il “terzo mondo” delle relazioni, non siamo più capaci di entrare in contatto, quello non mediato da tramiti come internet, il telefono… Non per altro l’Italia è uno di quei Pesi con un indice Fil – la Felicità interna lorda – davvero molto basso. E ci battono Stati che hanno condizioni di vita molto più difficili ma che possiedono ancora una dimensione umana. I nostri nemici sono sia la sfiducia che stiamo sviluppando nel prossimo sia la semplice mancanza, soprattutto nelle grandi città, di luoghi di aggregazione. E poi anche in questo caso c’è la vergogna di dirsi soli. Gli anziani muoiono di solitudine e i più giovani magari si trincerano dietro migliaia di finti amici in rete piuttosto che ammettere di non avere relazioni significative. Ragazzi sempre “connessi” e in contatto ma che non possono godere di relazioni continue che li nutrano e gratifichino per davvero. Ma anche in questo ambito intravedo non pochi segnali di cambiamento. Un rinnovato desiderio di aggregazione. Manifestazioni, ritrovi, momenti di incontro che prediligono il contatto e lo scambio concreto.

Noi abbiamo sempre potuto contare su una tribù, una rete sociale cui fare affidamento. Cosa è accaduto?
Per me il meccanismo ha cominciato a vacillare da poco. È venuto a mancare il contesto religioso, con il suo potere di aggregazione e di sostegno e le famiglie sono cambiate profondamente. Adesso abbiamo piccoli nuclei, prima le generazioni vivevano insieme e ciascuno supportava l’altro con il proprio bagaglio di esperienza. Oggi ci affidiamo alla tecnologia che non è all’altezza delle nostre esigenze e dobbiamo pagare lo scotto di ritmi di vita frenetici. Quand’è che la gente ha tempo di incontrarsi oggi? Solo che stiamo risolvendo un problema nel modo sbagliato, stiamo puntando in una direzione sbagliata. Se ci si pensa Google risponde a ogni nostra domanda, ma non è detto che lo faccia nel modo giusto. Dobbiamo cominciare a farci delle domande permettendoci di trovare in noi la risposta e non solo all’esterno.

Per esempio scrivendo un libro in cui si sollevano domane e si propongono soluzioni…
Ho sempre desiderato scrivere, solo che quando entravo in libreria avevo la sensazione che tutto fosse già stato scritto. Avevo un’idea e poi ecco che la trovavo già pubblicata. Poi ho capito che ciò che conta è il modo in cui si affronta un tema: il proprio stile e i propri contenuti.

Grazie, Olga, per averli condivisi con noi!

A un passo dalla felicità. Ritrovare la gioia nei momenti di crisi, Olga Chiaia, Urra edizioni, p. 145 (12 euro)

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