Il salto. Elegia per un amico – Sarah Manguso

Il salto. Elegia per un amico – Sarah Manguso

Ho girato intorno a Il salto di Sarah Manguso per un po’. Spostandolo di mensola in mensola. Curiosa di leggerlo, preoccupata di farlo. Parla di morte. Non nel modo “innocuo” di un giallo o di un thriller. Questa non è fiction. La morte è quella vera, quella che ti riguarda.

“Sto lavorando a un libro su un uomo che si butta sotto un treno. Non ho nessun interesse a costruire una storia vera sull’impalcatura artificiale di una trama, ma qual è la storia vera? Il mio amico è morto. E questa non è una storia.”

No, non è una storia ma un isterico girare intorno a un vuoto. L’assenza di Harris. È una ricostruzione impossibile perché il vuoto è incolmabile e non si tratta solo della morte – anche se non è questa il vero problema, il vero problema è che Harris non sia più vivo – ma di riempire la mancanza di dettagli e informazioni. Come possiamo conoscere una persona per davvero? Non possiamo. Soprattutto quando questa persona non c’è più.

“Sto allevando il minuscolo bambino irrazionale della morte di Harris. Si nasconde, poi spunta ed esige tutta la mia attenzione e la mia energia. Io limito la sua sfera d’azione: quando insegno non ci penso, quando corro non ci penso, quando sono con altri, non ci penso. Ma poi mi sorprende e devo andare a casa e stare con lui, prendermene cura.”

Chi è Harris? Un musicista di talento, un compositore. Uno che aveva studiato, amato, vissuto. Una persona felice? O malata? Di sicuro era un amico ed era uno specchio in cui riflettersi, orecchie che ascoltano, qualcuno con cui condividere il cammino.

No, non è la fotografia della morte di una persona cara Il salto, è il tentativo di capire come si possa andare avanti senza qualcuno che amiamo, come sia più facile farlo che non farlo e che cosa rappresenti davvero la privazione di un affetto. Una assenza che egoisticamente vorremmo riempita; un passo in più verso la fine perché, in qualche modo, ogni lutto ci avvicina alla nostra di morte.

Il salto inevitabilmente parla della vita, della paura di affrontarla e delle crepe – la malattia, la pazzia, le psicosi – attraverso le quali questa paura si insinua nella nostra esistenza e si fa concreta. Parla di suicidio e a farlo è Sarah, una donna che per anni lo ha tentato il suicidio, fallendo, perché la sua famiglia ha fatto di tutto per impedirglielo oppure perché non c’era abbastanza coraggio per arrivare fino in fondo? E se si è cercato il sollievo della morte, come ci si sente a non capire perché un amico abbia fatto altrettanto? Perché farsi domande, arrabbiarsi, perché volere un messaggio di commiato, una spiegazione? Perché un uomo che un giorno si stende sui binari per farsi cancellare dalla faccia della Terra ti annienta. Non ci sono ragioni, non c’è conforto.

E come ci si sente leggendo questo libro? Angosciati, preoccupati per Sarah. Amici di Harris. Soli. Sollevati. Stupidamente superiori (siamo vivi, siamo sani, siamo al sicuro?). Ci mette nella posizione degli ascoltatori, l’autrice, lei la paziente che ci rovescia addosso pensieri e paure, e noi “i dottori” capaci di annotare i sentimenti di chi soffre ma non di proporre soluzioni.

“Voglio sapere del mio dolore che è inconoscibile, come quello di tutti” scrive Sarah. Il salto mi ricorda quel gioco de La Settimana enigmistica in cui devi unire i punti per vedere un’immagine e dare un senso al caos. Qui i punti sono i ricordi; alcuni macroscopici e collettivi – l’11 settembre, il terrorismo, l’incubo antrace – altri briciole di vita: gli amici, il grande openspace di Harris, i Capodanni, le vacanze… E il senso? È ciò che riempie il vuoto dopo un salto. Tocca farlo per conoscerlo.

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