Premiata macelleria creativa

Premiata macelleria creativa

Dai racconti erotici alla pubblicità. O meglio dalla pubblicità alla pubblicità con deviazione racconti erotici. Se amate Valentina Maran, scoprite la sua nuova fatica. E occhio, ne ha per tutti!

Ehi, dico a te che leggi oltre il monitor. Sei libero? No, non sono a caccia di compagnia. Intendo la libertà di fare delle scelte, avere un determinato gusto. Essere la persona che credi di essere.

Voglio dire, sei proprio sicuro che le scarpe che indossi ti piacciano davvero? E, aprendo il frigo, la mozzarella che campeggia sul secondo ripiano in attesa di essere giustiziata se ne sta lì perché è la migliore in commercio? E le ultime vacanze che ti sei concesso il quel posto da “sogno”… ecco, il sogno di chi?
Perché esiste la possibilità, non troppo remota, che tu stia solo eseguendo gli ordini impartiti da un dittatore che ti affabula a suon di jingle, immagini conturbanti e paroline suadenti.

Pubblicità. Ti dice qualcosa? Immagina che una persona che da anni sopravvive nel settore ti racconti come funziona la “baracca”, cosa fanno e chi sono quelli che ci lavorano, e lo faccia senza preoccuparsi di pestare i piedi ai mostri sacri o di dire la propria.
Se pensi che sarebbe bello leggere un libro così, sei fortunato, perché il libro c’è e si chiama Premiata macelleria creativa (edito da Fandango). L’ha scritto Valentina Maran.

Tutti cercano di piacere e non solo quando scrivono i libri. Non avere paura di “dispiacere” non è cosa da poco. Come si racconta la propria vita privata – apri, per esempio, con la difficoltà a spiegare a tua madre ciò che fai, che diventa, in un certo senso, misura della vostra distanza – e quella lavorativa?
È sempre complicato far capire quello che fai. E chi scrive sa che prima o poi scontenterà qualcuno: i difetti, le cose andate storte, le avarie del quotidiano… queste imperfezioni della realtà rendono interessante un racconto. Tutti vorrebbero essere descritti come belli e interessanti, in realtà i personaggi sono memorabili quando sono pessimi individui. È così anche per il lavoro.
La pubblicità è un bellissimo lavoro, gratificante, ma anche tremendamente logorante. Se entri nel vortice del “voglio vincere i premi”, finisci col perdere di vista il fine: fare un buon lavoro che venda perché il tuo cliente ha investito su ciò che tu hai per le mani. Devi fare il meglio per lui. Non per te. Ma tanti non lo capiscono. È una continua rincorsa al fare la cosa più bella per il proprio portfolio, ma non è detto che quella sia la cosa giusta per il cliente.
Alcuni creativi non lo ammetterebbero mai.
E tanti preferiscono tacere su molte cose, sulle ingiustizie, sugli straordinari non pagati, perché fa parte di un meccanismo che reputano perdente all’interno del tritacarne della creatività.
Molti mi chiedono se così non ho paura di farmi dei nemici. Io sono una professionista e so fare bene il mio lavoro. I miei lavori parlano per me. Di cosa mi devo preoccupare?

Hai esordito con L’uomo che mi lava (Piemme), una raccolta di racconti erotici – tematiche toste e cifra stilistica che lascia il segno – adesso cambi pelle, ovvero formato e genere, per approdare a una sorta di autopsia di un mestiere. Il tuo. Qual è stato l’innesco creativo?
In questo caso non era possibile utilizzare la stessa cifra stilistica.
La cosa difficile è stata mantenere la credibilità, perché quando racconti di gente esasperata che si mette a correre nuda per i corridoi alle quattro del mattino, quando racconti tutti i weekend passati al lavoro senza un euro in più in busta paga, la gente pensa che stai scherzando. Quando descrivi le persone ai vertici delle aziende coi loro difetti e le paranoie, il pubblico rischia di pensar che hai creato delle caricature, invece non è così.
La difficoltà è stata appunto far capire, con un minimo di ironia, quanta strana umanità abita i corridoi delle agenzie pubblicitarie.
Il tutto spiegando anche la piramide decisionale e i ruoli all’interno delle agenzie.
Non si poteva fare usando la stessa forza che ho usato nei racconti erotici. Qui serviva molta leggerezza.

Cinema e tv dipingono il “pubblicitario” (non meglio precisato, perché il personaggio sembra sempre fare un po’ tutto e niente) come un impiego sexy (vedi Bova in uno dei vari Moccia’s movie), alternativo barra creativo (Casomai), complicato e spietato ma non troppo (L’uomo perfetto). Però, diciamolo, pare tutto piuttosto affascinante. Cosa rende tanto attraente questa professione?
È molto vicina all’arte. E ti permette di lavorare a fianco di professionisti incredibili: ti può capitare di girare uno spot con un grande regista, di avere sul set un attore di Hollywood. Incontri persone davvero di altissimo livello. Mentre tu vendi formaggini. Magari lo fai molto bene, ma vendi formaggini o qualsiasi altra cosa. Sei spesso a contatto con il mondo artistico vero e questo porta molti a pensare che la pubblicità sia arte. Non a caso la frase più ricorrete quando fai un lavoro di cui andare fiero è “l’ho fatto io!”.
In realtà, i soldi sono del cliente, la regia è del regista, tutto è gestito da una produzione. Certo, l’idea è stata tua. Chi non sa niente di questo mestiere poi ama sentirsi raccontare chicche curiose vissute con persone celebri. C’è molta aspettativa attorno a questo mestiere. Tutti ti chiedono “come hai fatto a farti venire quell’idea?”. È un mestiere. Si impara anche a farsi venire in mente cose geniali. Diventa automatico. Il brutto è quando cominci a sognarti gli spot anche di notte e ad appuntarteli. A un certo punto ti accorgi che non è una cosa tanto sana.

I leader non ne escono molto bene. Un misto tra ex gente di successo (con un piede nella glaciazione e l’altro nella tomba) e gente che pare trovarsi ai posti di comando per una candid camera. Vuoi dire che l’unica buona pubblicità è quella che riescono a fare a se stessi?
Su le mani a chi non è capitato almeno una volta nella vita di avere un capo imbecille. : )
Sì, tantissima gente molto brava a vendersi ma lavorativamente incapace.
In alcuni casi li ho visti cadere dal piedistallo. Ma molti sono ancora lì. È una strana evoluzione della specie che non mi spiego.
Nel caso dei direttori creativi molti sono stati (o sono) creativi bravissimi, ma una volta passati al ruolo di dirigenti non sono in grado di gestire un reparto. Quello è proprio un altro mestiere. Motivare le persone, dare i giusti stimoli, ottimizzare i talenti… alcuni pensano che basti trattar male i dipendenti per farli sentire in colpa e invogliarli a dare di più. Personalmente lo trovo un atteggiamento cretino.

Il nostro tempo è le nostre competenze sono merce di scambio. Noi le “mettiamo sul piatto” e in cambio riceviamo uno stipendio. Cosa succede, però, se il lavoro si divora il nostro tempo e, per di più, un giorno ci viene dato il ben servito?
Nel mondo della pubblicità siamo arrivati da tempo a un punto di non ritorno. C’è proprio il concetto del sacrificio personale: interi weekend non retribuiti, nottate passate in agenzia per finire un lavoro nel quale si crede. Le agenzie ci marciano perché è tutto budget risparmiato. Ma se non ti fai pagare per quello che fai vuol dire che il tuo lavoro vale poco. O non vale per niente. Che professionista sei se non ti fai pagare? Quanta credibilità hai se la tua professionalità costa così poco?
Un cliente prima di chiederti delle modifiche a un lavoro farà molta attenzione a darti le giuste indicazioni, soppeserà bene le sue indecisioni prima di contestarti qualcosa. E sceglierà subito un professionista di cui si fida. Ma se sa di avere un galoppino da far correre a proprio piacimento per ogni capriccio, tanto è gratis, allora anche il suo senso critico si accorcia e diventa pura irrazionalità.
Si passa dal bisogno oggettivo di perfezionare un messaggio, al giudizio soggettivo del “non mi piace”.
Un cliente che chiama decine di agenzie in gara e non da un rimborso spese chiedendo anche i diritti sulle idee non uscite ha una bassissima opinione della creatività e della professionalità.
Io non parteciperei mai a una gara del genere: si rovina il mercato. Bisogna essere pronti anche a dire di no per proteggere e preservare la propria credibilità.
Da quando lavoro in proprio non ho fatto più un solo weekend. Le ore mi si pagano tutte. E casualmente non è più servito farmi le notti. Qualcosa vorrà dire.
C’è anche gente che fa di tutto per non far sapere che viene licenziata (anche se in modo ingiusto) perché la reputa una macchia della propria immagine. Io c’ho scritto sopra un articolo su “La Stampa”. Punti di vista.

Leggendoti si sorride parecchio (diretti interessati a parte) e si scopre soprattutto cosa significhi produrre uno spot: dalla genesi dell’idea ai vari step per realizzarla. Ovvero arrivare al punto in cui della suddetta idea non sarà rimasto che uno sbiadito ricordo. Perché, capolavori a parte (pochi), l’eccidio della creatività pare un passatempo inflazionato dalle tue parti?
Sì. Ci si deve abituare al cestino della carta straccia. Moltissime idee, quasi tutte, anche quelle straordinarie vengono cestinate. O quando non succede spesso l’idea iniziale viene snaturata.
Spesso perché per arrivare all’approvazione finale si deve passare per tutti gli strati della piramide aziendale dove ciascuno deve dire ciò che pensa.
Alcuni si sento in obbligo di chiedere modifiche perché sembra che approvare subito un buon lavoro non sia possibile. Devono chiedere modifiche per giustificare il proprio stipendio.
Triste, ma purtroppo fa parte delle dinamiche interne alle aziende. E spessissimo purtroppo chi si occupa di comunicazione e marketing nelle aziende non è aggiornato e non capisce nulla di comunicazione. C’è una vera e propria diseducazione alla creatività e al buon gusto.

Abnegazione al mestiere o pulsione autodistruttiva del creativo: cosa spinge un copy a continuare?
È un bel lavoro, alla fine. E se preso con le giuste distanze è anche divertente. Quando impari che un “no” o una modifica non sono la morte della creatività, allora vivi sereno. Anni fa me la prendevo moltissimo coi clienti perché non capivano le idee… ora che ci lavoro a stretto contatto posso spiegare loro le mie motivazioni. Cambi registro. E diventi meno estremista.

Credevi di cavartela così? Una pubblicità per dissuadere il lettore dal leggerti? (Tanto per misurare i livelli di creatività e masochismo)
Be’. Mi hanno licenziata in tronco qualche anno fa… non vorrete mica fidarvi di me, vero?

Una pubblicità progresso contro gli editori a pagamento?
Uh, sarebbe bellissimo da fare! Dai dai, pensiamoci veramente e facciamolo! Non farmi sprecare un’occasione così! Non scherzo eh! Magari vinciamo pure un premio!

Fantastico! Visto l’entusiasmo direi che è inutile chiedere la tua posizione nei confronti dell’Eap. E non dico la mia, altrimenti non ne usciamo più… anzi: qualche idea su una pubblicità progresso per farmi stare zitta?
Non sarebbe una pubblicità progresso. : )

(I copy mentono, ma lo fanno con classe).

Premiata macelleria creativa. Fine di un glamour, Valentina Maran, Fandango, p. 253 (14 euro)

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3 Comments

  • Una intervista tutta pepe! Una bella “realtà” di donna e di coraggio.
    ps: non vedo l’ora di vedere il vostro spot vs Eap!

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