Il club dei suicidi

Il club dei suicidi

La terza volta che ho cercato di ammazzarmi ho usato una corda. L’ho presa dalla cantina, una di quelle che si usano per stendere il bucato. Non dovevo impiccarmi a un ponte né a un albero, per cui ho pensato che non ne servisse una particolarmente robusta. Doveva esserlo quanto bastava per uccidermi.
Ho cercato di suicidarmi sei volte, sette se consideriamo quella in cui ho camminato in mezzo alle corsie dell’autostrada vicino ai camion, pronto a saltare. Ma forse non conta. Alla fine non ho fatto niente, ho solo passeggiato sullo spartitraffico provando a buttarmi in mezzo alla corsia. Tutti, soprattutto mia mamma, gli psichiatri e i miei due consulenti scolastici dicono che se avessi voluto morire avrei scelto metodi più letali. Penso che la corda sia abbastanza letale.
La macchina rallenta. Frank esce dall’autostrada.
La terza volta è stata la più violenta e la più pericolosa. Mi sono messo quel cordino bianco intorno al collo e ho fatto un cappio. Poi l’ho stretto così forte che mi ha scorticato la pelle e sono svenuto – ma non sono morto. Me la sono cavata con un segno fatto dalla corda per cui non sono riuscito a trovare una scusa. Quella volta sono finito dieci giorni in clinica psichiatrica.
La macchina si immette su una strada secondaria.
«Tra quanto ci possiamo fermare per andare in bagno?» geme Jin-Ae dal sedile davanti. Ha la voce stridula.
«Tra un minuto» dice Frank.
Io non parlo. Sto pensando al mio terzo tentativo e alla corda, perché credo che la userò anche la prossima volta.
Entriamo in un parcheggio.
Da Dunkin’ Donuts c’è Audrey. Si alza di scatto dalla sedia. Non ha mai postato una sua foto, per cui mi chiedevo se l’avremmo riconosciuta. Ma quei capelli corti, rasati a zero, sono inequivocabili. Ci vede. La guardo mentre raccoglie lo zaino da terra e sfreccia davanti al bancone. Audrey esce sbattendo la porta e viene verso di noi.
«Bagno?» chiede Jin-Ae.
Frank annuisce. Spegne il motore. Jin-Ae apre la portiera, fa per scendere ma si ferma a guardare Audrey. Mi piace stare dietro, così riesco a vedere chi sta davanti. Fuori, Audrey lancia il bicchiere di carta dentro il cesto della spazzatura. Lo manca. Non si ferma, continua solo a saltellare verso la macchina.
«Ha fretta» commenta Frank.
«Non c’è niente di meglio di un bel suicidio a quattro per cominciare la giornata» fa Jin-Ae. Lei è sempre sopra le righe, arrabbiata, pungente. È così.
Audrey è davanti al finestrino di Frank. «Andiamo» dice.
«Calma, ragazza» risponde Jin-Ae, scendendo finalmente dall’auto. «Devo pisciare.»
«Non possiamo andarcene? Odio questa città» si lamenta Audrey. Si china a guardarmi. «Piacere di conoscerla, Sua Altezza. Di persona siete tutti diversi.»
«Ha fretta» dice Jin-Ae a Frank, facendo il verso a Audrey.
«Eddai» ribatte Audrey. «Trainate la slitta, dogs!»
Frank sembra sorridere a quest’ultima frase. «Un paio di minuti. Dobbiamo sgranchirci un po’» dice a Audrey. «Sono ore che guido.»
Jin-Ae indica la cicatrice rossa sulla fronte di Audrey.
«Ecco cosa riesce a fare una padella.»
Audrey sbuffa ma non risponde.
Frank scende dall’auto, prende lo zaino di Audrey, e lo mette nel bagagliaio. Audrey sale dietro accanto a me senza aggiungere altro.

Il club dei suicidi, Albert Borris, traduzione di Tiziana Lo Porto, Giunti Editore, p. 304 (14,50 euro)

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