L’incipit di Qualcosa di scritto, il romanzo-saggio di Emanuele Trevi che ci racconta della sua esperienza di lavoro al Fondo Pier Paolo Pasolini, a Roma, del difficile rapporto con Laura Betti, amica storica dello scrittore, di Petrolio il romanzo incompiuto di Pasolini.
Tra le tante, troppe persone che hanno lavorato per Laura Betti al Fondo Pier Paolo Pasolini di Roma, tutte dotate di un loro pittoresco bagaglio di ricordi più o meno spiacevoli, credo di poter vantare, se non altro, una resistenza al di sopra della media. Non che mi fossero minimamente risparmiate le quotidiane e fantasiose angherie che la Pazza (così mi ero presto abituato a chiamarla fra me e me) si sentiva in dovere di infliggere ai suoi sottoposti. Le ero, al contrario, così irrimediabilmente odioso (non c’è una parola più esatta) da riuscire a stuzzicare tutte le corde del suo proteiforme sadismo: dall’inesauribile invenzione di nomignoli umilianti alla minaccia fisica vera e propria. Ogni volta che entravo nei locali del Fondo, in un tetro e massiccio palazzone d’angolo di piazza Cavour, non lontano dal fossato di Castel Sant’Angelo, percepivo in modo quasi fisico quell’ostilità animalesca, quella rabbia ingovernabile che iniziava a dardeggiare, come i fulmini a zig zag dei fumetti, da dietro le lenti dei suoi occhialoni da sole quadrati. Seguivano immediatamente le formule di buongiorno. «Buondì, zoccoletta, l’hai capito finalmente che è venuto il momento DI DARE IL CULO? O pensi di farla franca ancora per molto?!? Ma A ME non mi fai fessa, zoccoletta melliflua, ci vuole ben altro che una come te» – solo l’erompere di una risata che sembrava provenire da una caverna sotterranea, ed era resa ancora più minacciosa dal contrappunto di un suono indescrivibile, a metà strada fra il barrito e il singulto, poneva fine a questa prima raffica di amenità.
Molto raramente le valanghe di offese che si rovesciavano addosso ai malcapitati erano riconducibili a concetti di senso compiuto. Come regola generale, del resto, la Pazza detestava il senso compiuto; in ogni sua forma. Non c’era strumento umano che nelle sue mani non si trasformasse in un ordigno pericoloso. E il linguaggio non faceva eccezione. Le sue tirate ruotavano sul perno di un epiteto offensivo, assaporato con voluttà e continuamente ripetuto, come se lì, nella pura formulazione dell’insulto, risiedesse il sugo del discorso. Se rivolto ai maschi, l’epiteto era regolarmente femminile. Anche le persone a cui voleva bene, e che stimava, dovevano subire questa specie di evirazione simbolica. Alberto Moravia, per esempio, al quale era molto legata, a un certo punto diventò «nonna», e non ci fu più niente da fare. Tutto il resto del discorso, una volta pronunciata l’offesa, era pura e semplice improvvisazione – un carcere piranesiano di malanimo e disprezzo, incurante di logica e sintassi. «Zoccoletta» – fin dai primi giorni, quella era stata la sintesi, la formula perfetta di ciò che le ispiravo. Numerosi e fulminei, gli aggettivi seguivano il sostantivo, come segugi sulle tracce di una volpe. Zoccoletta melliflua, vanesia, bugiarda, fascista. Gesuita, assassina. Ambiziosa. Quanto a me, non avevo ancora compiuto trent’anni, ma avevo già fatto a tentoni, come il prigioniero di Edgar Allan Poe, il periplo delle pareti, umide e buie come si addice a tutti i sottosuoli, del mio carattere. Che la Pazza non avesse tutti i torti, potevo ammetterlo abbastanza facilmente. A mandarla su tutte le furie, era la mia volontà di compiacerla, la mia ostentata mancanza di aggressività, e in definitiva quell’indifferenza che è sempre stata la mia unica difesa da opporre alle minacce del mondo. Non c’era dubbio sul tipo di dannati che si sarebbe volentieri incaricato di tormentare per l’eternità quella specie di mostro dantesco, circondato dal fumo delle sigarette che lasciava consumare nel posacenere, con la sua mole sproporzionata e i capelli, di una terrificante tinta fra l’arancione e il rossiccio, annodati in un ciuffo che non poteva non far pensare, quando lo agitava, allo spruzzo di una balena, o al pennacchio di un ananas psicotico. Laura odiava gli ipocriti, e più in generale tutte quelle persone che, incapaci di esprimere se stesse, le apparivano fasulle, condannate a nascondersi dietro la loro maschera di cartapesta. Era questo che mi piaceva in lei, anche mentre ne subivo le conseguenze. Mi sembrava che, nascosta nei recessi di tutta quell’ostilità, ci fosse una specie di medicina, di insegnamento salvifico. E dunque, fin dalle prime settimane in cui frequentavo il Fondo, facendo presto esperienza di ogni genere di bufera umorale, dalle più lievi alle più gravi, avevo stabilito che il tempo che spendevo lì, all’ombra di quella Cernobyl mentale, era tempo ben speso. Cos’era esattamente – una punizione che mi ero inflitto da me stesso per espiare qualche gravissimo peccato? un esercizio spirituale improntato al più rigoroso masochismo? A un certo punto, non ci potevano essere dubbi, la Pazza mi avrebbe licenziato, come aveva fatto con decine di altri (certi rapporti di lavoro erano durati non più di qualche ora). Ma io, per quello che era in mio potere, non avrei fatto nulla per andarmene. Il mio incarico, nemmeno troppo complicato, consisteva nel rintracciare tutte le interviste rilasciate da Pasolini, dalle prime, che risalivano ai tempi del processo a Ragazzi di vita, fino alla più famosa, quella concessa a Furio Colombo poche ore prima di morire. Una volta raccolto tutto il materiale, ne avrei curato un’edizione. Niente di trascendentale, a parte la fatica di farlo; e Laura era molto generosa in fatto di soldi. Le piaceva sganciare assegni, dopo averli vergati in un suo modo drammatico, trasformando ogni compenso in un dono immeritato, in un furto ai danni della sua grandezza d’animo, e in una palese, inalterabile conferma di quella grandezza. Potendo, quegli assegni li avrebbe scolpiti nel marmo. Era anche molto abile nell’intercettare ogni tipo di finanziamenti pubblici, per sostenere tutte le iniziative del Fondo, e pagare un po’ di personale fisso: un bravissimo archivista, Giuseppe Mirate, paziente e distaccato come un bonzo tibetano, e un paio di ragazze che scorticava vive, ma che, senza nemmeno ammetterlo a se stesse, quasi finivano per volerle bene. Per quanto mi riguardava, prima o poi il licenziamento in tronco sarebbe stato inevitabile: ne avevo la certezza matematica. Il fatto è che Laura aveva delle idee tutte sue su come pubblicare quelle interviste di Pasolini. Erano pensieri folli e incomprensibili con cui mi affliggeva per ore, privi di qualunque utilità pratica. «Stammi a sentire, zoccoletta, queste interviste di Pier Paolo SCOTTANO, hai capito? Le hai lette. Lo capisci pure te. Sco-tta-no. E allora, in questo libro, tutte le parole devono VOLARE, lo capisci cos’è una forma che vola? Devi farle volare, volare, volare».
Qualcosa di scritto, Emanuele Trevi, Ponte alle Grazie, p. 246 (16,80 euro) ebook (8,99 euro)