Strega d’aprile, Majgull Axelsson

Strega d’aprile, Majgull Axelsson

Majgull AxelssonL’incipit del romanzo Strega d’aprile di Majgull Axelsson. 

«Chi sei?» domanda mia sorella.
È più sensibile delle altre, l’unica che riesca mai a indovinare la mia presenza. Adesso assomiglia a un uccello, lì in piedi con il collo proteso a frugare con lo sguardo il giardino. Ha solo una vestaglia grigia sopra la camicia da notte bianca e non sembra accorgersi del gelo notturno che ancora indugia nell’aria. La vestaglia è aperta e la cintura penzola da un unico passante, poggiando sulla scala della cucina alle sue spalle come un’esile penna caudale.
Lei volta la testa in un movimento brusco, tende l’orecchio verso il giardino e aspetta una risposta. Non sentendola arrivare, ripete la domanda, ora con voce più stridula e angosciata: «Chi sei?».

Il suo fiato forma piccoli pennacchi bianchi. Le donano. Lei è un tipo etereo. Come nebbia, pensai già la prima volta che la vidi.
Era una torrida giornata d’agosto di parecchie estati fa, molto prima ancora che andassi a stare nella casa albergo. Hubertsson aveva organizzato le cose in modo che mi portassero fuori e mi sistemassero sotto il grande acero, subito prima dell’inizio di una conferenza medica nell’auditorium della casa di riposo. Come per caso s’imbatté in Christina Wulf fuori nel parcheggio, e come per caso la convinse a prendere la scorciatoia attraverso il grande prato dove c’ero io. I tacchi delle sue décolleté sprofondavano nel soffice tappeto erboso e una volta che ebbero raggiunto lo spiazzo di ghiaia lei si fermò un attimo per controllare che sotto la suola non fosse rimasta attaccata della terra. Solo allora mi accorsi che indossava le calze, nonostante il caldo. Camicetta elegante,
gonna midi e collant. Tutto in sfumature diverse di bianco e di grigio.
«La tua sorella maggiore è una di quelle signore che si lavano le mani con la candeggina» aveva detto Hubertsson prima di farmela vedere.
Superficialmente era una buona descrizione. Ma un po’ incompleta. Quando infine la vidi in carne e ossa, mi sembrò così vaga sia nei colori sia nella forma, che dava l’impressione che le leggi fisiche della materia non la riguardassero, che avrebbe potuto passare come fumo attraverso finestre sbarrate e porte chiuse a chiave. Per un attimo mi convinsi che la mano di Hubertsson sarebbe passata dritto attraverso il suo braccio quando si protese per sostenerla.
Di per sé non sarebbe stato così strano. Spesso ci dimentichiamo che quelle che definiamo leggi naturali sono solamente la nostra interpretazione semplificata di una realtà che è troppo complessa perché possiamo comprenderla. Come per esempio questo fatto che viviamo in una nuvola di particelle che non hanno una massa; fotoni e neutrini. E anche quest’altro fatto che tutta la materia – anche quella che costituisce il corpo umano – è composta per la gran parte di vuoto. La distanza fra le particelle degli atomi è altrettanto grande come la distanza fra una stella e i suoi pianeti. Ciò che genera superficie e solidità non sono dunque le particelle in sé, ma i campi elettromagnetici che le tengono unite. La fisica quantistica inoltre ci insegna che gli elementi più piccoli della materia non sono soltanto particelle. Al tempo stesso sono anche onde. Alcuni di essi hanno inoltre la facoltà di trovarsi in più posti nello stesso momento. Nell’arco di un microsecondo l’elettrone prova tutte le sue possibili posizioni e in quell’attimo tutte queste possibilità sono altrettanto reali.
Dunque ogni cosa fluisce. Come sappiamo.

Strega d’aprile, Majgull Axelsson, traduzione di Carmen Giorgetti Cima, Elliot edizioni, p. 420 (18,50 euro)

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