I cani di Roma

I cani di Roma

Arturo clemente posò il ricevitore, si voltò verso la donna sdraiata tra le lenzuola sgualcite e disse: « Era Sveva. Devi andartene subito».
«Subito? » imbronciata, Manuela cominciò a raccogliere da terra i suoi vestiti.
Andò a guardar fuori dalla finestra aperta, sollevò le braccia e giunse le mani dietro il collo, issando i pesanti seni; Arturo si innervosì all’idea che qualcuno potesse vederla.
« Dio, che caldo» sospirò la donna voltando le ampie spalle per cogliere la brezza leggera. la finestra dava proprio sotto le fronde di un pino marittimo alto quasi come la palazzina. Le persiane erano accostate, dunque non c’era un gran pericolo che gli inquilini degli appartamenti di fronte la vedessero.
L’albero e il giardinetto in cui cresceva soffondevano i tipici odori romani di polvere, gas di scarico e spazzatura di un forte profumo di resina. Perfino i rumori delle strade sembravano ovattati. Era un posticino appartato, ispirava più il sonno che il sesso. La donna sembrava muoversi, voluttuosa, al rallentatore.
« Devi andartene subito» ripeté Arturo. «Ha cambiato programma. Stanno tornando».
Andò a sua volta alla finestra e sbirciò fuori, tanto per assicurarsi che nessuno li stesse guardando. Si vedevano gli involucri vuoti delle cicale dopo la metamorfosi, ancora attaccati alla corteccia del pino.
Manuela si strizzò metodicamente dentro un paio di aderenti jeans bianchi con le tasche ricoperte di strass e litigò per un momento con la cerniera.
Era stata un’idea di Manuela quella di passare il fine settimana insieme a casa di Arturo mentre Sveva era a Padova, nel suo collegio elettorale. Lui non era affatto sicuro che fosse una buona idea e i fatti gli stavano dando ragione.
Manuela non ci mise molto a prepararsi. Arturo, con indosso soltanto i boxer, tirando dentro la pancia un pochino, ma non più di tanto, perché era inutile, la accompagnò alla porta.
Con le scarpe, era più alta di lui. Un attimo prima di uscire, gli mise una mano sul braccio, lo strinse forte e avvicinò il viso al suo, abbastanza da permettergli di vedere la pelle sciupata sopra il labbro.
« Arturo» gli disse, «staremmo bene insieme. me lo sento. Ma così…» agitò la grossa mano a indicare la stanza da letto, l’appartamento, lui, Roma, tutto. «Hai un bambino. lo capisco. Però non…» Si interruppe. «Vorrei sul serio che funzionasse ».
Arturo le chiuse la porta alle spalle e tornò dritto in camera. Si sentiva sollevato e non aveva fretta. Sveva gli aveva detto che chiamava da Padova. anche se il treno fosse partito in quel momento esatto, le ci sarebbero volute cinque ore buone. Tolse le lenzuola dal letto e poi si domandò cosa farne. Le buttò nel cesto della biancheria sporca e ne prese delle altre che sembravano più o meno uguali. Sveva non avrebbe mai notato la differenza. Né lui né lei facevano il bucato.
E se anche l’avesse notata? Ormai non gli importava di nascondere la sua solitudine. Quando Sveva veniva a Roma, era per votare in Senato contro Berlusconi, non per passare del tempo insieme al marito.

I Cani di Roma, Conor Fitzgerald, traduzione di Elisa Banfi, Ponte alle Grazie, p. 470 (18,60 euro)

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