L’isola dei liombruni

L’isola dei liombruni

Samuele si rigira nel letto.
Accanto a lui, rannicchiato, suo fratello piccolo tiene la bocca semiaperta nelle apnee del sogno. Le zampe di un tavolino riverberano in fondo alla stanza, illuminata dal rosseggiare del fornelletto antizanzare. Accostato al tavolo si indovina l’intreccio di un canapè con sopra impilati i teli del mare ancora impregnati di sabbia e salsedine. La persiana è accostata, tagli neri e bianchi; lontano, il rollio della risacca. Sul grande cuscino Samuele volta il capo. Le palpebre ben chiuse tremano. A un tratto, dalla bocca gli sfugge una parola, si stacca dalle sue labbra in un sussulto.
«Liombruni».
Se solo sapesse, se solo potesse esserne sicuro, perché se loro ci fossero, se esistessero oltre il muro del sogno, allora Cecella avrebbe ragione, che anche qui ne vale la pena, anche qui poi si può vivere. Avvinghiato al cuscino, il ragazzo cerca di afferrare una qualsiasi certezza: esistono le rose?, è salato il sangue?, il sole tramonta ogni giorno? Soprattutto, esistono i liombruni? Saperli vivi anche qui, saperli reali nello spazio che da quella stanza si estende all’albergo, al paese, all’isola, al mare, alla notte che circonda la sua vita di quattordici anni, sapere questo darebbe a Samuele la speranza e il coraggio che gli mancano per aprire gli occhi, distruggere in se stesso la condanna di dover essere l’unico a ricordare, a conservare intatta la crudeltà della propria nostalgia.
Il fratello dà in un lungo respiro, si gira dall’altra parte.
Al suo fianco anche Samuele respira, dorme, continua a sognare.

Ore 6,28
Il cri-cri dei grilli fa ancora eco per il soffitto dello stanzone.

Dalla doppia finestra un chiarore di cenere s’alza man mano sul cumulo dei giornaletti in terra, accende un riflesso sulle maschere da immersione appese alla sedia, si stampa oltre l’arco, sopra l’angolo cottura e la finestra semichiusa che cigola piano.
Nel silenzio, un gemito. Sul letto Zenzero scalcia: una mano lo sta scuotendo dal sonno. Smiccio è seduto sul bordo, indosso una maglietta celeste sporco, un pantaloncino di tela grezza per mutande. Più magro dell’amico, bassino, una crosta di sangue sul gomito destro, dà un ultimo scossone a Zenzero. Finalmente l’altro apre gli occhi e lo fissa.
«Che c’è?», dice assonnato, «ne hanno trovati altri?».
Smiccio scuote la testa bionda, sorride.
«E allora che minciga mi svegli?!».
L’altro non risponde, prende un pacchetto e glielo caccia davanti.
«Buon compleanno», dice.
Zenzero si passa una mano sugli occhi, guarda il pacco.
«E a quest’ora me lo dovevi dare!».
Smiccio si accavalla sul letto, osserva le linee spiegazzate del lenzuolo.
«Sono due ore che mi sveglio a sprazzi, e dico: adesso è mattina, adesso è sveglio. Invece aprivo gli occhi ed era sempre buio. Poi ho visto un po’ di chiaro dalle persiane, ho pensato che non doveva essere troppo presto e ti ho svegliato. Dimmi che non ho fatto proprio male».

L’isola dei liombruni, Giovanni De Feo, Fazi Editore, p. 382 (18,50)

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