Golden Boot

Golden Boot


Il vecchio Bill ci cuciva l’anima nel cuoio dei suoi stivali, ma nessuno in paese li apprezzava più, presi com’erano a sopravvivere al logorio dei tarli nelle case abbandonate, che crollavano da sole, la notte, come stelle arrugginite sopraffatte dai soffi del vento, e schiantandosi non facevano quasi più rumore, alzavano quel tanto di polvere che seppelliva tutti un poco di più, nel sonno, nell’indolenza di vivere ai confini del nulla.

 Chuck aveva un’età in cui i padri hanno già da tempo insegnato ai figli a maneggiare una pistola. Ma a lui non interessava sparare. Nella sua testa, già da quand’era bambino, si era formata una distinzione chiara. Le persone che sparano, oltre a sparare, puzzano. Suo padre, che col fucile andava alla miniera, puzzava. Dalton, socio di suo padre, che del fucile non se ne liberava neanche nelle rare occasioni in cui faceva il bagno, puzzava. I mandriani, sempre col fucile sotto la sella, anche loro puzzavano. Il maestro, invece, non puzzava, e non portava né pistole né fucile. Il vecchio
Bill il fucile lo teneva nascosto, e infatti lui un po’ puzzava, ma l’odore era del cuoio, del grasso, dei coloranti della sua bottega. E a Chuck, quell’odore, non sarebbe dispiaciuto portarselo addosso. Perché lui, Chuck, quello voleva fare. Stivali. E non sparare al vento appresso alle vacche, come Clint Junior, o alla miniera, come suo padre, per tenere lontani gli intrusi.
Se ne stava dietro la casa, all’ombra, al riparo dal calore estivo. Leggeva senza essere visto i sonetti di Keats che gli aveva lasciato William, un giovane insegnante fresco di Inghilterra di passaggio verso l’Ovest. Era sempre lì che andava, nell’ora in cui il paese si rintanava per dare modo al pomeriggio di passare, col libro stretto sottobraccio, furtivo, come se si stesse appartando per altri bisogni, e vide lo sciacallo avvicinarsi. Suo padre gliel’aveva ripetuto tante di quelle volte che nella vita non si sarebbe mai fatto valere e ci si sarebbe dovuto foderare i pantaloni con i libri che leggeva, per proteggersi da chi avrebbe voluto divertirsi a prenderlo a calci nel sedere, perché, senza fucile, sarebbe cresciuto come una donna. Per Chuck, quello sciacallo sperduto nel baluginio del pomeriggio era l’opportunità per dimostrare a suo padre, al paese, che se lui avesse voluto avrebbe potuto sparare come tutti. Rientrò in casa. Neppure lo starnazzare delle galline svegliava suo padre dai ronfi pesanti di alcol cattivo. Dormiva riverso sulla sedia a dondolo. La madre, aveva detto, avrebbe passato il pomeriggio da Alice a rammendare le tende. Recuperò il fucile. Tornò dietro la casa. Serrò il calcio alla spalla, chiuse un occhio, seguì la canna con l’occhio aperto e in fondo alla canna il bersaglio, l’animale nero dai movimenti lenti, magro come un’ombra e la gallina tra i denti che ancora sbatteva le ali. Premette il grilletto. Lo scoppio gli schiaffeggiò la guancia, gli fischiò negli orecchi per tutto il tempo che se ne rimase a guardare con un occhio mezzo cieco – l’aveva tenuto chiuso troppo stretto – oltre la staccionata dove l’animale avrebbe dovuto essere steso a morire, e il padre arrivò con la pistola in
«Ho ucciso lo sciacallo», disse Chuck e gli porse il fucile.
Trovarono tracce di sangue.
«Sella il cavallo e prendi il Kentucky», disse il padre. Il tono voleva essere duro, ma suonò avvilito, scosso da un risveglio senza l’angelo costude al suo fianco, volatosene via mentre lui sognava le verdi colline di un’infanzia che amava raccontare ma neppure ricordava se fosse stata vera, e Chuck si rese conto di aver fatto a suo padre qualcosa che un uomo non poteva permettersi, farsi trovare senza difesa, con la guardia abbassata, alla mercé di chiunque avesse voluto fargli del male. A che valeva dormire vestito, pistola nella cintura, con gli stivali ai piedi per essere pronto a ogni evenienza, se poi un ragazzino poteva portarti via il fucile?

Rod snervava i cavalli a un’andatura così lenta che Chuck, alle sue spalle, forzando sul morso, faticava a tenere. Sentiva il cavallo fremere per il caldo, per la lentezza, e osservava il padre, la testa che ondulava, che puntava qualcosa tra le pietre e ci teneva gli occhi fissi mentre il cavallo avanzava, fino a voltarsi del tutto per lasciare la traccia dietro di sé a Chuck, che capisse che cosa c’era da guardare. Da guardare c’erano delle macchie di sangue e le orme dello sciacallo.
«Morirà?», chiese Chuck.
«Guarda meglio le orme», disse il padre.
Troppo regolari. Non erano certo quelle di un animale che si trascinava verso la morte. Aumentarono le piume che rotolavano tra i rivoli di polvere. Il padre continuò a tacere, a indicare coi movimenti del capo quello che c’era da guardare. Il suo colpo non aveva centrato il bersaglio giusto e, se qualcosa ci aveva lasciato le penne, non era lo sciacallo. Chuck rispondeva col silenzio al silenzio del padre. Si vergognava. Sperava che almeno il suo colpo si fosse perso nell’aria. Ma il padre indicò la testa della gallina spezzata dal proiettile. Era stato un buon colpo, il suo. Ma restava il fatto che aveva colpito il pollo.

Golden Boot, Paolo Nelli, Fazi Editore, p. 221 (16 euro)

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