Anne Stevenson – Le vie delle parole

Anne Stevenson – Le vie delle parole

Anne Stevenson per “DiVersi, solo le cose inutili sono poetiche” di Elisabetta Bucciarelli che oggi si domanda come si possa rendere la propria vita poesia.

Anne Stevenson - Le vie delle parole - Interno Poesia
Autore: Anne Stevenson
Casa editrice: Interno Poesia
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Fare poesia

“Devi abitare la poesia
se devi fare poesia”.

E cosa significa “abitare”?

Significa portarla come un abito, indossare
le parole, sedendo nella luce più netta,
nella seta del mattino, nel fodero della notte;
un sentire spoglio e frondoso in un’aria che sorprende;
familiare…insolita.

E cosa significa “fare”?

Essere e diventare il clima mutevole
delle parole, il servo della musa a condizioni
atroci, intraprendere viaggi sopra voci,
evitare la collina dell’ego, il pozzo dell’afflizione,
la sirena che sussurra stampare, successo, stampare,
successo, successo, successo.

E perché abitare, fare, ereditare poesia?

Oh, è la commedia condivisa della peggiore
benedizione; il suono che guida a mano;
la parola vitale che scorre da una mente all’altra
attraverso le stanze lavate dei sensi;
una di quelle stregate, indifendibili, impoetiche
croci che pur dobbiamo portare.

Però vorrei che la mia vita fosse poesia. Vorrei portarla come abito, indossare le parole, vorrei poter sorprendere chi ho vicino, essere il servo della musa e, con un certo impegno, vorrei evitare la collina dell’ego. Anche il pozzo dell’afflizione, potendo.

Ma tu perché ti ostini a parlare di poesia? Per questo motivo, per fare della mia vita una poesia. Lo ripeto. Leggo poesia per fare della mia vita (e un pochino anche della Vostra) una poesia. Poi, dopo che l’ho detto, mi viene da ridere. Come si fa a rendere la propria vita, poesia?

Non sempre chi scrive ha una vita-poesia. È in dis-equilibrio, è fuori asse. Nemmeno chi la legge. Anzi quasi mai. E anche chi la detesta. Certi poeti, poi, sono il contrario della poesia, certi di loro e anche certi scrittori, è meglio non conoscerli. Scrivono poesia, ma parlano un’altra lingua. Vivono un’altra lingua.

E allora, a tempo perso, proviamo a ostinarci. Adesso che siamo in vacanza, per esempio.

Lo dico in un altro modo. È una gran noia stare sempre nelle stesse parole, spesso cacofonie insopportabili. Non vi capita di pensarlo? Superlativi, eccitativi, stravolgitivi, assolutivi… coro qui e caro là, madri del rumore e bada a come parli, dice la Stevenson in altre sue composizioni.

E allora perché non dedicare un poco del nostro tempo a setacciare i pensieri e sentire in modo a volte spoglio e altre frondoso, a comporci con una grazia differente. È possibile, dicono taluni psicoanalisti (frequentiamoli senza resistenze, fanno bene), è possibile, dicevo, portare la nostra “croce espressiva” in modo elegante, senza lamento evidente, senza recriminazioni ostinate. Senza sterili polemiche. Senza cercare spazio, successo successo successo. Senza ostentare io qui, io là, io su e io giù. Un po’ di “io” va bene, ma esiste anche un mondo intorno (che gira ogni giorno).

Tu mi ami così profondamente/ che in superficie non si vede niente. Scriveva la brava Giovanna De Carli. Mostrare la profondità in superficie (senza vizi e vezzi) si vuole. E si può.

A volte capita di incontrare esistenze di poesia, ne ho in mente alcune, rotonde e spigolose, risolte e sincere. Anche nella fatica quotidiana e negli inciampi, anche nelle frustrazioni. Che non ostentano un poterucolo d’accatto e nemmeno piangono il margine in cui sono confinate.

Esistenze allenate a leggere poesie (talvolta anche scriverle, perlopiù di nascosto), alla ricerca ostinata di una musicalità, un ritmo, un battere e un levare. Capaci di citare a memoria, tradurre in immagine, in segno. Esprimere il dissenso in modo accordato. Firulì e firulà. Ne abbiamo necessità, anzi no, ne abbiamo bisogno.

Anne Stevenson, Le vie delle parole, Interno Poesia, appena acquistato alla Libreria del Convegno di Milano.

Di Anne Stevenson trovate tutto qui.

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